Tutti vogliono qualcosa

Il cinema di Richard Linklater — cinquantaseienne regista e sceneggiatore texano arrivato l’anno scorso a conquistare l’Oscar con lo sperimentale Boyhood dopo una carriera sempre all’insegna dell’originalità e del rifiuto del compromesso con le regole di Hollywood — è un raro esempio di coerenza verso la propria poetica ma anche di fedeltà a una serie costante di tematiche ricorrenti che in ogni suo film vengono puntualmente riproposte per aggiornare la lettura del continuo evolversi della realtà circostante.

E questa sua ultima commedia, Tutti vogliono qualcosa, non fa che confermare una tendenza divenuta con gli anni una sorta di marchio di fabbrica, anche se non sono pochi i detrattori che lo accusano di aver esordito con titoli di ardua sperimentazione (basterebbe ricordare l’ardito It’s impossible to plow by reading books o il cult generazionale Slacker) per poi adagiarsi su produzioni di più aperta vocazione commerciale (quali il flop di The Newton Boys o la trilogia di Before), spiazzando quanti lo avevano acclamato come autore di culto.

Ma se si analizza a fondo la filmografia di Linklater — lunga ormai un quarto di secolo e arrivata a centrare un inatteso Oscar con la sua creatura più spregiudicata e controcorrente —, che lo si ami o meno sarà impossibile non ammettere nel suo cinema una fortissima coerenza che disegna sottili e invisibili linee di connessione tra titoli solo apparentemente estranei gli uni o agli altri o così lontani negli spiriti e nelle forme da far dubitare di essere stati scritti e diretti dallo stesso cineasta.

Tutti vogliono qualcosa è solo in apparenza un inno celebrativo alla scanzonata temperie dei primi anni ’80, quell’era pre-reaganiana e pre-AIDS in cui tutto sembrava possibile e non c’era pessimismo latente che non potesse essere combattuto con l’immersione nel fiume contagioso di una vitalità tutta musica, ebbrezza esistenziale e slancio verso le sorti magnifiche e progressive di un futuro tutto rose e fiori. Ma attenzione: questo è ciò che appare a una prima lettura superficiale e anche ciò che i trailer in circolazione sembra vogliano spacciare come la sola autentica carta che il film abbia da giocare.

La storia è innegabile che ruoti intorno a una giovane matricola che arriva al college e che si aggrega ai futuri compagni della squadra di baseball coi quali condivide la casa messa a disposizione del team, vivendo con loro tre giorni di pura follia che precedono l’inizio delle lezioni e trovando negli eccessi di ogni tipo che caratterizzano quelle 72 ore lo stimolo per improvvisare una crescita interiore e un viatico verso un futuro possibile di crescita.

Ed è anche vero che il film sembra in parte un bignami di tutto quel che si deve sapere di quegli anni (non a caso uno degli elementi più potenti dell’intera operazione è una formidabile colonna sonora a base di rock, funky e rap che accompagna le avventure del protagonista e dei suoi sodali in ogni fotogramma della pellicola), rischiando in certi punti di assomigliare pericolosamente a una brutta copia di Animal House o a un episodio della serie Porky’s scritto e diretto però da qualcuno che abbia un’idea di cinema meno pecoreccia di quelle che sostengono di solito i famigerati «college movies».

Ma dietro le apparenze c’è ben altro. Tanto per cominciare una specie di catalogo di tutte le ossessioni ricorrenti del cinema di Linklater: a partire dalla tensione all’autobiografismo dichiarato (è noto che ai tempi dei suoi esordi nel mondo studentesco il regista arrivò alla Sam Houston University texana a giocare come lanciatore per la squadra dell’università), per passare alla passione per la musica e il biliardo, ai dialoghi fluviali spesso disancorati dalla realtà e per finire con la tendenza che il cinema di Linklater ha di concludere le sceneggiature dei propri film con personaggi che fanno tesoro della lezione del passato e, dopo aver tentato di definire se stessi nell’arco dell’intero film, vengono messi di fronte all’inizio di un ipotetico domani.

Cosa questa che puntualmente accade anche a Jake, il protagonista di Tutti vogliono qualcosa, il quale alla fine del film — dopo tre giorni deliranti spesi a battagliare coi compagni di squadra/casa per farsi accettare come uno del branco a forza di spacconate ed eccessi di ogni tipo — finalmente precipita in un sonno ristoratore. Ed è in quel momento che la macchina da presa si sofferma sulle sue palpebre socchiuse come se il film (o un suo potenziale sequel già in fieri pur non essendo ancora finito l’originale) dovesse cominciare soltanto in quel preciso istante.

Nel cinema di questo talentuoso texano (che con i conterranei Kevin Smith e Wes Anderson è forse il cantore più convincente di una generazione in piena confusione e alla costante ricerca di un’identità ben definita) nulla accade mai per caso e si ha sempre l’impressione che tra le tante citazioni interne che pullulano tra le pieghe della sceneggiatura le più coerenti e convincenti siano sempre quelle autoreferenziali a un titolo della propria bibliografia.

Come accade puntualmente in Tutti vogliono qualcosa: se da una parte si guarda infatti a tutta la tradizione del «college movie» nelle sue forme meno volgari e si si strizza l’occhio a titoli di culto quali All American Boys e al già menzionato cult di Animal House per catturare al meglio lo spirito di un’era ormai recuperabile soltanto con un’operazione nostalgia, dall’altra è impossibile non riandare con la memoria a La vita è un sogno, suo secondo lungometraggio girato nel 1993 che, non a caso, raccontava le ultime 24 ore di vita scolastica di un gruppo di maturandi di un liceo texano, decisi a capire chi fossero tra zuffe, baci appassionati e voglia di ubriacarsi di quella Vita vera che nessuno aveva di fatto ancora assaggiato.

Come se quegli stessi liceali si fossero convertiti negli universitari di Tutti vogliono qualcosa, in una magica saldatura che scavalca senza disagi 23 anni di Storia e riporta indietro l’orologio del Tempo per completare il ritratto di un’epoca — quel glorioso mix di irresponsabile vitalità svincolata dagli impegni degli anni ’70 ma allo stesso tempo ancora non contaminata dall’incipiente era dello yuppismo galoppante — iniziato nel ’93 e destinato a essere completato oggi.

Trama

Negli USA dei primi anni ’80 un giovane di belle speranze (soprattutto sportive) si trasferisce al college dove divide un appartamento coi compagni della squadra di baseball dell’università. Nei tre giorni che precedono l’inizio delle lezioni, il ragazzo avrà modo di effettuare un percorso di crescita interiore ma anche di maturazione in un alternarsi convulso e febbrile di slanci cameratistici, aperti scontri all’interno del gruppo e notti sregolate in cerca di ragazze da conquistare.


di Guido Reverdito
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