Tutta la vita davanti

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tutta_lavita_davanti_imgIl mondo salvato dalla filosofia. Potrebbe essere questa l’unica fonte d’ottimismo di un film felice eppure cupissimo come Tutta la vita davanti di Paolo Virzì. Di fronte a un caos così disperante com’è il mondo del lavoro dei nostri giorni ciò che non riesce più a fare il sindacato – irriso, inascoltato e impotente – può farlo invece la filosofia, ovvero la prerogativa preziosa di chi, malgrado tutto, è capace di continuare a pensare (e quindi difendersi) in un ambiente in cui tutti hanno perso la testa e l’anima, dove tutti corrono senza sapere dove, in cui i meriti e i valori che sembravano i più saldi si sono ribaltati, un mondo infine dove nessuno si salva e tutti sono infelici.

Marta, la protagonista del film, si è appena laureata a pieni voti in Filosofia teoretica, disciplina eletta e insegnata da un’università decrepita e fuori del tempo (straordinaria la sequenza del conferimento della laurea), ma si rende conto ben presto che sapere di Heidegger conta zero nella società del nuovo millennio e che, per chi non ha “santi in paradiso”, laurea è sinonimo di disoccupazione. Dopo molti rifiuti e rinvii Marta si dà quasi per vinta, trova ospitalità presso l’appartamento di una ragazza madre e lavoro come precaria in un Call center organizzato e governato con le regole di un reality show di Mediaset. Tra danze motivazionali e colleghi invasati alla ricerca della performance, entusiasmi fittizi e frustrazioni amarissime, di quel grande inganno Marta vede e subisce sia le luci e le paillettes dell’immagine esterna (sorrisi patinati e grandi pacche sulle spalle) sia la volgarità e la ferocia del “dietro le quinte”. Un inferno senza ritorno, in cui si è schiavi senza neppure avere la coscienza delle catene ai piedi, e in cui ci si può salvare solo rimanendo se stessi, salvaguardando un po’ di etica e un barlume di solidarietà. Marta ci riesce grazie appunto ai suoi strumenti, perché possono servire pure Platone ed Heidegger per scoprire regole e leggi anche nei comportamenti più incomprensibili, e per trovare un senso di ragione e umanità anche nella follia più esasperata.

Paolo Virzì racconta con il suo film (ed è la prima volta che capita con questa forza nel nuovo cinema italiano) la povertà e la disperazione che dilagano nelle generazioni più giovani, ma soprattutto la nuova infelicità diventata quasi una condizione di vita accettabile e accettata. E lo fa sia con la cifra alta del “conte philosophique” alla Voltaire (l’uso della voce off, tanto criticata da certi colleghi, è qui assolutamente pertinente), sia con graffiate di costume che lasciano il segno (l’appartamento nuovo inaugurato dalla Ferilli, il dopocena dei post laureati che confrontano i loro fallimenti, lo spettacolino in teatro organizzato dal sindacato). Ma lo fa soprattutto con notevoli momenti di cinema-cinema, dalle scene musical di ambientazione cittadina ad alcune citazioni cinefile davvero memorabili. Due per tutte: Valerio Mastandrea, sfigato sindacalista dei precari (in onore del Mastroianni de I compagni), e soprattutto una strepitosa Sabrina Ferilli, che si ritaglia un’uscita di scena alla Norma Desmond di Viale del tramonto.


di Piero Spila
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