Tulpan
La luce e gli spazi. Questi sono i due elementi espressivi centrali di Tulpan, film di Sergei Dvortsevoy.Una luce calda, radente e chiara. Una sorta di velo morbido e avvolgente che rende levigati i volti e paradossalmente accogliente la steppa del Kazakhstan. Gli spazi infiniti, piatti, delimitati da orizzonti che si perdono nel nulla e che non alludono ad alcun accogliente altrove, che pure esiste ma che sembra di un altro pianeta.
Sergei Dvortsevoy alterna riprese in campi lunghissimi (e con profondità di campo assoluta) alla macchina a mano e primi piani sui volti dei personaggi principali. È, quella di Tulpan, una struttura visuale che rappresenta una sorta di testa-coda linguistico, nel quale sono messe in comunicazione la mistica vacuità del paesaggio e l’intensa, quanto enigmatica e silente, espressività dei volti. Ma si tratta di un gioco di rispecchiamenti, di dialettica delle due facce della stessa medaglia. La bellezza lunare dell’ambiente è speculare all’amore che i protagonisti rivolgono all’ambiente stesso. E anche il mondo animale (pecore, cammelli, cani, asini, cavalli) sembra essere partecipe armonioso di questa vita, apparentemente basilare, certamente cruda e difficile.
Con le sue inquadrature, spesso traballanti, Dvortsevoy ci mostra la sostanza dell’esistenza nella steppa. La nascita di un agnello diviene così fattore simbolico della continuazione dell’esistenza. Sono gli stessi pastori che infondono la vita all’animale neonato, soffiando il loro fiato, con tutta la forza che hanno nei polmoni, nella bocca dell’agnello, mettendo in un gesto arcaico che si perde probabilmente nei millenni. Allo stesso tempo, l’autore racconta il desiderio della fuga, la volontà di divenire cittadini della “capitale”, l’aspirazione a un rapporto sentimentale basato sugli affetti e sull’attrazione erotica piuttosto che sull’accordo tra famiglie.
La dimensione umana e privata è dunque intrecciata alle tradizioni ancestrali, i sentimenti agli usi e costumi che un intero popolo porta avanti da secoli.
Il regime del Kazakhstan è solo evocato grazie alle notizie che arrivano da una radio, ma proprio questo banale mezzo tecnologico fornisce l’idea della separazione e della lontananza, della separazione tra due mondi, quelli degli abitanti di Alma Ata e delle popolazioni nomadi della steppa, dedite alla pastorizia.
Dvortsevoy racconta anche di una femminilità misteriosa e delicata, di voci muliebri e capelli di seta, di occhi profondi e labbra disegnate. Alcune sue inquadrature ricordano le opere, i video e le immagini fotografiche di una grande artista Kazaka: Almagul Menlibayeva. Corpi nella steppa, colori morbidi, capelli scuri mossi dal vento, sguardi interiori che alludono all’armonia tra femminilità e paesaggio. Dvortsevoy e Menlibayeva ci parlano dello stesso mondo e dello stesso mistero femminile. Che poi, forse, è il mistero di una natura dai tratti metafisici.
* Per concessione di New Cultframe Arti Visive (www.cultframe.com)
di Maurizio G. De Bonis