Totem – Il mio sole
La recensione di Totem - Il mio sole, di Lila Avilés, a cura di Guido Reverdito.
Nel Messico dei giorni nostri, in una casa patronale con tanto di giardino lussureggiante tutto intorno, fervono i preparativi per una grande festa. Tra i tanti membri di un’imponente famiglia allargata (il cui capostipite è il nonno costretto però a comunicare con l’uso di un laringofono), la più piccola è Sol, una bambina di sette anni che trascorre con gaia leggerezza la caotica giornata giocando con cuginetti, zie assortite e animali che scorrazzano liberi per la casa, mentre tutti fanno il possibile per impedirle di andare a trovare il padre pittore, che giace a letto in una delle stanze dei piani superiori ridotto quasi in fin di vita da un cancro. La festa è per il suo compleanno che finirà però con l’essere anche una sorta di anticipo di funerale che gli adulti cercano di evitare possa segnare in maniera troppo marcata l’infanzia allegra della pur consapevole Sol.
Opera seconda della 41enne regista e sceneggiatrice messicana Lila Avilés (dopo il sorprendente esordio con The Chambermaid nel 2018), questo ritratto di famiglia in un interno chiassoso e colorato è stato insignito del Premio della Giuria Ecumenica alla 73esima Berlinale per poi essere scelto dal Messico come rappresentante per l’Oscar al miglior film internazionale, riuscendo a entrare nel lotto dei quindici lungometraggi in gara senza però centrare la cinquina finale.
Affresco corale in stile kammerspiel girato in un immersivo 4:3 e giocato tutto su una sinfonia di piani sequenza negli interni quasi labirintici della grande casa in cui si sta lavorando alla preparazione della festa serale per il giovane pittore malato, Tótem – Il mio sole è soprattutto un inno intimista e in parte dichiaratamente autobiografico alla forza coesiva che la famiglia non smette di avere in società ancorate a valori inossidabili che si tramandano di generazione in generazione e che convivono da sempre con ritualità antiche ereditate da ere precolombiane.
Non deve quindi stupire che l’intera sceneggiatura ruoti sulla dicotomia tra luce e ombra e vita e morte: le prime rappresentate dalla piccola Sol che porta nel proprio stesso nome il calore della luce come forza vitale che rigenera, le seconde dal giovane malato (il tótem appunto del titolo, assistito e protetto da un gineceo vociante) e dagli infiniti anfratti con cui la grande casa ammanta i sentimenti e le sensazioni dei molti personaggi che si affannano per non far capire a Sol che il compleanno sarà invece un anticipo simbolico di esequie. Un connubio quello di Vita e Morte che in Messico ha assunto nei secoli un ruolo tanto prominente da essere celebrato nella festa nazionale del Día de los muertos (come mostrato dai due ottimi prodotti di animazione de Il libro della vita e Coco).
Ma il film è anche una celebrazione dell’innocenza dello sguardo di chi, come la piccola Sol, assiste ai riti sociali (spesso bugiardi) degli adulti come se la sua partecipazione alla giornata particolare che coinvolge tutto il clan allargato della famiglia avvenisse sul palco di un teatro (e non è una caso che Avilés abbia una lunga consuetudine con regie teatrali). E lei fosse – tramite i piani sequenza che sono la sintassi filmica dell’intera narrazione – la sola spettatrice autorizzata a valutare la credibilità di chi recita cercando di spacciare per vita autentica ciò che invece gli occhi di una bambina smascherano rompendo costantemente l’illusione scenica.
di Guido Reverdito