Torneranno i prati

C’è un momento, più o meno a metà di Torneranno i prati, in cui forse a qualcuno tornerà in mente Prima linea (1956) di Robert Aldrich, dove un gruppo di soldati, chiusi in una cantina, è vittima dell’insensatezza di un capitano. Scherzi della memoria; pur all’interno dell’argomento bellico, l’ultimo film di Olmi è lontanissimo dal film di Aldrich. E non tanto perché lì si parlava di seconda guerra mondiale mentre qui siamo alla prima, ma per il passo lento e meditato del film italiano rispetto al realismo arrabbiato ma pur sempre hollywoodiano dell’altro.

Lo spunto iniziale di Torneranno i prati è un breve capolavoro della letteratura italiana, La paura di Federico De Roberto, in cui il tirassegno di un cecchino ungherese su soldati italiani comandati di sortire da una trincea sfocia nel suicidio di un veterano d’Africa che preferisce farsi fuori da sé. Ma è solo uno spunto, rimescolato ai racconti che papà Olmi, reduce della Grande Guerra, fece all’Ermanno bambino.

Gran parte del film si svolge in un’unica notte, dentro una trincea scavata nella neve, alla vigilia di Caporetto. Chiusi nella loro caverna artificiale, i soldati consultano cartine, impartiscono e ricevono ordini, e intanto la loro coscienza lascia affiorare riflessioni sulla propria condizione, la sfiducia nei superiori, la disperazione del futuro. Si aspetta, si soffre, si ripensa a casa, si offrono molliche a un topolino; nelle more un soldato napoletano, ritto sul muretto di cinta, canta Tu ca nun chiagne e Fenesta ca lucive prendendosi complimenti pure dal fronte austriaco.

Fosse solo attesa, una guerra del genere potrebbe sembrare sopportabile. Ma non siamo nel deserto dei Tartari. Torneranno i prati è un film dichiaratamente pedagogico, che vuole rievocare una guerra lontana, quella “brutta bestia” che ha ingannato e ucciso schiere di giovani uomini. Perciò l’atmosfera sospesa e allucinata dei soldati viene stravolta improvvisamente da una violentissima pioggia di colpi di mortaio. E’ il momento Saving Private Ryan, tanto inaspettato in un film di Olmi quanto necessario in un’opera che vuole dipingere la sventura bellica. La tempesta di morte che arriva sulle teste dei soldati sembra venire dal nulla, potrebbe arrivare dagli austriaci come da un “fuoco amico”. Olmi non mette infatti in questione un’opposizione tra “i nostri” e “i nemici” ma piuttosto un corpo a corpo mentale con la guerra, una maledizione da condannare in sé e per sé.

Olmi ha spiegato di aver accettato questa scommessa (è uno dei pochi film “su commissione” della sua carriera) per chiedere scusa alle vittime di un conflitto che nessuno aveva loro spiegato, ma non intende certo indagare un conflitto che ha già una bibliografia immensa, quanto provare a restituirne l’insensatezza, far patire allo spettatore la stessa mancanza di motivazioni nella quale combatterono e morirono i soldati di cent’anni fa.

Il regista ha ripetuto che si tratta di avvenimenti realmente accaduti, che ha voluto però affrontare con un approccio non realistico. Piegati dal freddo, dalla fame, dalla febbre, dalla nostalgia, i soldatini di Olmi si esprimono con lentezza quasi sonnambulica, a tratti rivolgendosi direttamente allo spettatore, occhi dritti in macchina, in brevi “a parte” teatrali che si amalgamano miracolosamente con le zone narrative più tradizionali.

Certo, è cinema magro, stilizzato, meditativo, in molti sensi penitenziale. Un film di intenzioni elevate e grande rigore registico. Conciso (un’ora e venti senza orpelli) e di notevole omogeneità drammaturgica, superiore rispetto ad altri recenti film di Olmi. Dotato di uno sguardo etico consapevole di se stesso ma mai strabordante o sentenzioso. Realizzato da uno dei pochi padri nobili del nostro cinema ancora in attività. Un’opera che però, va detto, non riesce sempre palpitante e “a fuoco”, e che sarebbe comunque improprio consigliare a una platea indistinta o poco attrezzata.

Tra le sorprese del film c’è la fotografia materica di Fabio Olmi, figlio del regista, realizzata ancora nella gloriosa pellicola e trasferita in digitale a 4K, con una definizione eccezionale: il che significa travi di legno con venature ben incise, fiammelle tremolanti, bacili di ferro smaltato, calcinacci che si sfarinano, preistorici telefoni a manovella che ti vien voglia di toccare. Il tutto con colori desaturati, al limite col bianco e nero, più il raro ricorso a qualche effetto speciale (un larice che si colora d’oro poco prima che una granata lo incendi e lo distrugga, personale omaggio di Olmi alla bellezza di una natura messa in pericolo dall’inciviltà umana).

Attenzione al prefinale composto di materiali d’epoca in cui truppe di militi – tutti ignoti e tutti uguali nelle loro uniformi – si compongono in file che si vanno via via ingrossando, diventano folla, piazza festante, immagini di giubilo propagandistico che vengono negate nell’ultimo fotogramma da un camposanto incrostato di croci sbilenche, onesta conclusione e ribaltamento di ogni inutile retorica guerresca.

TRAMA

1917, sul fronte di Nord Est. Chiusi dentro una trincea scavata nella neve, un drappello di soldati italiani attende l’ordine di attaccare o ripiegare, e intanto cerca di fronteggiare il freddo, la febbre, la disperazione. L’arrivo di un maggiore, che reca l’ordine di spostarsi verso un rudere non segnato dalle mappe, porta al tentativo di uscire, subito rintuzzato dalle fucilate del fronte opposto. Il rumore della guerra intanto si avvicina. Sotto lo sguardo sempre più disperato di un tenentino appena messo al comando, i soldati dovranno affrontare un pesantissimo bombardamento.

Il film è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani.


di Alberto Anile
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