“Tori e Lokita”: tra fiaba politica e cinema della realtà

Guido Silei spiega perché "Tori e Lokita", l'ultimo film dei Dardenne, recentemente ospiti al Festival dei Popoli, non è all'altezza dei precedenti.

Tori e Lokita

In Tori e Lokita i Dardenne provano a cambiare schema e utilizzano la fiaba per denunciare la condizione dei minori stranieri non accompagnati, ma il manicheismo morale e l’intento pedagogico del copione depotenziano l’impatto emotivo del film. Il risultato è un tentativo riuscito solo in parte di affrontare il tema dell’immigrazione: la valenza politica dell’operazione è indiscutibile, ma non arriva a scuotere la coscienza dello spettatore, come invece riescono ancora a fare, a distanza di decenni, i capolavori dei due cineasti valloni.

L’anteprima italiana di Tori e Lokita è avvenuta al Festival dei Popoli, al termine di una retrospettiva dal titolo “La promessa del reale”, che è stata un’occasione unica di ripercorrere le tappe della filmografia dei Dardenne a partire dai loro primi lavori, e soprattutto di incontrare i due fratelli, che hanno dialogato con Daniela Persico durante una masterclass aperta al pubblico.

Giunto quest’anno alla 63ª edizione, il Festival dei Popoli è il più importante festival di cinema documentario d’Italia e il più longevo d’Europa. La scelta di dedicare una retrospettiva ai Dardenne è perfettamente in linea con la sua vocazione socio-antropologica, ma anche con quella documentaristica: prima di approdare al cinema di finzione e di imporsi all’attenzione di critica e pubblico, infatti, i Dardenne hanno compiuto un decennale percorso nel documentario, esperienza fondamentale per la loro filmografia successiva. Ripercorrerlo brevemente può essere utile per comprendere pregi e difetti del loro ultimo film.

I Dardenne esordiscono dietro la macchina da presa nella seconda metà degli anni Settanta. Il loro percorso artistico ha origine da due fattori. Il primo è l’incontro con Armand Gatti, personalità poliedrica di cui sono assistenti in teatro, e grazie al quale entrano in contatto con la realtà operaia della loro regione, la Vallonia. L’altro elemento centrale della loro formazione è proprio la loro terra. Provenendo dalla piccola borghesia, Luc e Jean-Pierre sono cresciuti in un contesto relativamente protetto, ed è proprio la scoperta del mondo operaio a spingerli fuori dalla loro bolla. Si può dire che i Dardenne diventino cineasti nel momento in cui scelgono il cinema come mezzo per analizzare la realtà a loro circostante.

Per due-tre anni vanno in giro con una Portapak filmando gli operai nelle loro case, montando direttamente in macchina e proiettando i loro videoritratti dove capita: alla casa del popolo, nella sede del partito socialista, nella sala parrocchiale o in luoghi di fortuna. L’importante è mostrare le persone, dare loro un’opportunità di raccontarsi. Così facendo i Dardenne contribuiscono alla costruzione di una memoria collettiva della loro regione, allo scopo di trasmetterla anzitutto a se stessi, e poi alle generazioni successive. La loro ricerca parte dalla vita quotidiana degli individui per trovare una parola universale, capace di parlare di (e a) tutti gli oppressi: i partigiani in lotta contro l’occupazione nazista, gli operai delle fabbriche che si opponevano alla dominazione capitalista, e, più di recente, gli immigrati africani che lottano contro l’indifferenza delle istituzioni e contro lo sfruttamento da parte della malavita.

Nonostante la separazione dal loro padre spirituale Armand Gatti, i Dardenne hanno sempre riconosciuto l’importanza della sua eredità, specialmente nel passaggio dal documentario alla finzione. Da una parte, infatti, l’esperienza teatrale ha insegnato loro la forza degli attori e dei loro corpi, dall’altra Gatti nel suo approccio anarchico e anticonvenzionale ha trasmesso loro l’inutilità della tecnica fine a se stessa. Ci vogliono due film, Falsch (1987) e Je pense à vous (1992), perché i Dardenne comincino ad interrogarsi sul senso del loro lavoro e trovino, nel successivo La promesse (1996), una forma nuova, che andrà perfezionandosi negli anni fino a diventare la loro cifra stilistica.

Dal punto di vista registico, nel cinema dei Dardenne la mediazione tra il volto dell’attore e lo spettatore viene soppressa, la tecnica è ridotta al minimo, i punti macchina sono apparentemente sbagliati. Da spettatori, si ha l’impressione che l’attore sfugga alla macchina da presa, la quale arriva sempre in ritardo, come se non avesse potere sulla realtà, come se fosse sempre all’inseguimento. Un critico inglese arriverà a dire che quando si guardano i film dei Dardenne si ha l’impressione di essere entrati in sala a film già iniziato: la realtà è più grande di quel che si può filmare e il loro stile vuole restituire questa condizione ontologica del mezzo cinematografico.

Ma non è solo una questione di stile; il principio organizzatore della messa in scena nei film dei Dardenne non è calato dall’alto né corrisponde ad un qualche principio tecnico, oppure ad una postura stilistica: esso deriva da una riflessione sul senso della realtà e dalla capacità della scrittura di andare oltre la dimensione sociale e politica della realtà stessa. I Dardenne prendono personaggi reali, aneddoti, fatti di cronaca e li trasformano in questioni morali.

A questo proposito, durante l’incontro con il pubblico al Festival dei Popoli, Luc Dardenne ha raccontato un aneddoto riguardante il compianto Jean-Marie Straub e il finale di Rosetta. Secondo Straub, il film sarebbe dovuto finire quando Rosetta prende il posto di Riquet, poiché la società capitalista esige che tutti siano sostituibili e che nessuno sia solidale con l’altro. I Dardenne, invece, che non volevano servirsi di Rosetta per dimostrare una tesi, hanno fatto in modo che Rosetta incontrasse di nuovo Riquet, lo guardasse in faccia e vedesse in lui non solo un nemico, ma forse in realtà anche un suo amico. Questo perché per loro la questione morale era più importante della questione politica.

Nei loro film la loro ossessione è sempre stata questa: fare in modo che a un certo punto un essere umano riconoscesse l’altro come suo simile, perché, malgrado una società basata sul denaro e sull’interesse personale, una relazione più profonda e più autentica tra due esseri umani è possibile. Per dirla con Luc, i personaggi dei loro film «sono tutti in attesa dell’altro di cui mancano». E ogni film, aggiungiamo noi, è la storia di un incontro.

Ma come si inserisce Tori e Lokita all’interno della poetica dei fratelli Dardenne? Anzitutto, è interessante notare che il primo germe di questa idea risale a molti anni fa, come raccontano i diari scritti da Luc Dardenne tra il 1991 e il 2014, recentemente ripubblicati in Italia da Il Saggiatore con il titolo di Addosso alle immagini. Qui, alla data del 30 ottobre 2008, compaiono per la prima volta i personaggi di due fratelli camerunensi senza permesso di soggiorno che, dopo l’arresto e l’espulsione dei genitori, sono costretti a cavarsela da soli. La storia che Luc ipotizza rievoca a grandi linee la fiaba di Pollicino.

Scrive Luc: «Prima dell’espulsione dal territorio belga, la madre riesce a telefonare alla figlia (undici, dodici anni) che si trova con il fratello maggiore (quindici anni) nell’appartamento di un’amica camerunense a Liegi. Le dice: “Torneremo in Belgio, restate insieme qualunque cosa succeda, non vi separate mai, aspettateci.” Seguiremmo la vita di questi due ragazzi per diversi mesi, a casa dell’amica camerunense, in un centro per minori stranieri non accompagnati, per strada. L’ossessione della ragazza sarebbe: restiamo insieme finché non tornano i nostri genitori. La madre avrebbe fissato il luogo dell’appuntamento per il suo ritorno, vale a dire il parcheggio davanti al supermercato dove andavano a fare la spesa. La ragazzina andrebbe spesso in quel parcheggio ad aspettare i genitori. Il fratello maggiore non crederebbe più a quel ritorno (potrebbe avere un’informazione che lo conforta in tal senso), sarebbe attratto da una banda della mala che gli proporrebbe di guadagnare facendo diversi piccoli traffici. Abbandonerebbe la sorella in un centro per minori non accompagnati, lei scapperebbe da quel centro, riuscirebbe a trovare il fratello, farebbe il possibile per restare vicino a lui, lo seguirebbe nei piccoli traffici, nei furti, si farebbe cacciare via dalla banda. Tenterebbe di sopravvivere da sola per strada, troverebbe un alloggio clandestino, verrebbe a sapere che il fratello si nasconde perché avrebbe rifiutato di fare qualcosa per la banda o avrebbe tenuto del denaro, lei lo nasconderebbe nel suo alloggio. Una mattina, tornando dal parcheggio dove è andata ad aspettare il ritorno dei genitori, è seguita da alcuni della banda. Il fratello si fa pestare a sangue, lei chiamerebbe l’ambulanza per portarlo in ospedale. Nella camera d’ospedale sente che il fratello si è davvero riavvicinato a lei, che sono di nuovo insieme, inseparabili. La madre tornerà, è sicura. […] L’ultima scena del film potrebbe essere la ragazzina che aspetta la madre nel parcheggio, vicino alle porte del supermercato. Un titolo possibile: Le rêve des Ankaye».

Evidentemente e per ovvie ragioni temporali Tori e Lokita sono ancora lontani, tuttavia il cuore dell’idea è già presente in nuce. Ma l’11 novembre Luc liquida l’idea: «Qualcosa di troppo pieno, di troppo narrativo ne Le rêve des Ankaye. C’è una storia, ma non un film». E riprende a lavorare sul personaggio di Cyril, che diventerà il protagonista del film successivo, Il ragazzo con la bicicletta.

I diari pubblicati da Il Saggiatore terminano nel giugno 2014 e non sappiamo quanti e quali altri passaggi siano stati necessari prima che i Dardenne riprendessero in mano Le rêve des Ankaye e lo trasformassero inTori e Lokita. Quello che è certo è che, sviluppando l’idea iniziale, i due autori hanno apportato diverse modifiche, la più sostanziale delle quali è il fatto che i due protagonisti non sono veramente fratelli, ma fingono di esserlo, perché altrimenti uno dei due (Lokita) non avrebbe diritto al permesso di soggiorno. Sono dunque costretti a mentire alle autorità, e la scelta di iniziare il film con questa menzogna offre un elemento di ambiguità morale che ricorda i dilemmi interiori di alcuni personaggi dardenniani, come ad esempio Lorna. Il problema è che la gravità di questa menzogna, dal punto di vista morale, è piuttosto relativa, non solo perché il suo scopo è ingannare un burocrate indifferente (e pressoché invisibile allo spettatore), ma anche perché le sue conseguenze non sarebbero dannose per nessuno (come era appunto ne Il matrimonio di Lorna). Quindi c’è un problema di tenuta narrativa di questa idea, e infatti nel momento in cui viene negata la cittadinanza a Lokita il copione prende un’altra piega e torna sul sentiero battuto da Le rêve des Ankaye, concentrandosi sul conflitto tra i protagonisti e la malavita.

Il resto della storia è costruito adattando la condizione di due minori stranieri non accompagnati alla struttura di una fiaba contemporanea. Si pensi alle sequenze nel capannone con Lokita imprigionata per prendersi cura della coltivazione di marijuana, poi salvata da Tori. Viene subito in mente Pollicino che tira fuori dai guai i fratelli e le sorelle. E come spiegare la scelta di mettere in scena personaggi così nettamente distinti in buoni e cattivi, se non con il riferimento al racconto fiabesco, che per sua natura è manicheo nella caratterizzazione dei personaggi? Del resto, come ogni fiaba che si rispetti, il film ha un chiaro intento pedagogico (si veda il discorso pronunciato da Tori sul finale). Più manifesto politico che racconto sulla condizione umana: è questa la caratteristica di Tori e Lokita che a noi fan dei Dardenne ha lasciato una punta di delusione. Forse anche più di una punta.

In conclusione, non si può negare che l’idea di raccontare il dramma dell’immigrazione in chiave fiabesca fosse affascinante, ma sarebbe servita un’idea nuova anche in termini di regia. Difficile filmare Tori e Lokita con quello stile dardenniano che abbiamo sommariamente riassunto sopra senza cadere nella retorica o nel buonismo. Chissà cosa ne penserebbe Straub. Di sicuro continueremo ad amare il cinema di questi due maestri che da sempre filmano la realtà sfuggente della nostra epoca armati delle migliori intenzioni.


di Guido Silei
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