To Rome with Love

To Rome with Love è stato preceduto da mesi di indiscrezioni e più o meno inaffidabili anticipazioni su trame e presenze attorali di massima grandezza, ma anche su una struttura narrativa molto complessa e articolata che avrebbe dovuto fare riferimento a modelli letterari alquanto ambiziosi quali addirittura il Decameron boccaccesco e la sua versione cinematografica di Pasolini. Una volta arrivata nelle sale, l’ultima fatica di Woody Allen è quindi approdata stracarica di fin troppe aspettative. Soprattutto perché con questo atto d’amore annunciato alla città di Roma il regista newyorchese – da sempre popolarissimo in Italia – aveva aprioristicamente illuso la nutrita legione dei suoi fan nostrani, i quali aspettavano con fibrillazione di poter gridare ai quattro venti che il migliore dei film da lui dedicati di recente alle grandi capitali europee (Barcellona, Londra e Parigi) sarebbe stato quello italiano con al centro la città eterna.

Ma ancora una volta i monti hanno partorito il più classico e deludente dei topolini. Anche se spiace dirlo, è sconcertante come il film di Allen sia un concentrato di luoghi comuni tra i più vieti e del tutto fuori tempo massimo. O meglio, una galleria di cartoline che avrebbero avuto forse un qualche senso in un film dei tardi anni ’60, ma che qui stonano ancora di più non solo per il fatto di essere pura archeologia della memoria, ma sopratutto per non essere mai rivitalizzate dal benché minimo guizzo creativo che le rianimi dalla loro passività di macchiette tutto folclore da bancarella per turisti giapponesi.

Per capirlo ci vuole davvero pochissimo. Basta la prima sequenza che mostra un vigile pacioso (e lontano anni luce da quel che si vede per le strade della capitale tutti i giorni) impegnato a dirigere il traffico nel centro di Roma con movenze e una gestualità che ricordano il vigile di Alberto Sordi nell’omonimo film diretto nel 1960 da Luigi Zampa: è lui, con una irritante voice off, a fare da narratore esterno di quella che vuole essere l’ambiziosa cornice narrativa dei quattro episodi che compongono il corpus narrativo del film. È lui che apre e chiude infatti la pellicola spargendo pillole di saggezza esistenziale sulla natura più intima e autentica dell’italianità fatta uomo.

Ma quello del vigile è solo l’antipasto indigesto di un pranzo destinato a rimanere sullo stomaco a chiunque. Fan di Woody Allen compresi (o soprattutto loro). Perché i quattro episodi non riescono a far dimenticare l’attacco. Anzi, col procedere del film e col loro alternarsi privo di contatti (si tratta infatti di tronconi narrativi il cui unico punto in comune è la città di Roma) le cose non fanno che peggiorare perché nessuno di essi ha la forza di salvare l’ordinaria banalità dell’intera operazione.

Non la rifrittura della gag di Provaci ancora con Sam con Alec Baldwin che interpreta un celebre architetto in visita a Roma dopo anni e che, una volta persosi a Trastevere dove aveva trascorso un anno di studi da giovane, incontra un neo laureato in architettura di cui diventa una specie di mentore cercando di aiutarlo a resistere all’attrazione che il ragazzo prova per la migliore amica della fidanzata giunta in visita a Roma. Non la satira della TV che genera miti dal nulla e li distrugge in un attimo (con Benigni nei panni dell’uomo qualunque convertito suo malgrado in una star del vacuo blabla televisivo e poi riportato bruscamente alla delusione dell’anonimato). Così come non ci riescono né la riproposizione del plot dello Sceicco bianco di Fellini aggiornata e corretta ai giorni nostri, né tanto meno l’episodio che vede lo stesso Allen protagonista, per altro il solo salvabile tra tutti, nel quale veste i panni di un regista d’opera in pensione che, giunto a Roma con la moglie per conoscere la famiglia del fidanzato italiano della figlia, scopre che il futuro consuocero – impresario di pompe funebri nella vita – è un formidabile tenore amatoriale ma che riesce a dare il meglio di sé solo sotto la doccia. E per questo prima lo lancia come concertista facendolo cantare sul palco sotto una doccia mobile, e poi allestisce una sconcertante anche se in parte memorabile versione dei Pagliacci di Leoncavallo sfruttando lo stesso stratagemma umido.

To Rome with Love vuole essere un tributo alla città eterna da parte di un americano che ne è innamorato e che ha pianificato in maniera programmatica di trasferire in immagini la propria visione di un mondo che non esiste più e che ormai appartiene solo alla sua memoria personale in celluloide (prova ne siano le diffuse citazioni felliniane e di molto cinema dedicato in passato a Roma che abbondano nel film rendendo più di una sequenza irritante al punto da dare fastidio). Il problema è che nello spettatore italiano questo atto d’amore produce lo stesso effetto che produrrebbe in uno spettatore americano un film di Bertolucci dedicato alla celebrazione retorica e vacua della New York da cartolina che ogni nostro connazionale innamorato della Grande Mela potrebbe avere immagazzinata nella sua memoria visiva di turista acculturato.

Se tutto questo poi non bastasse, c’è poi da aggiungere che la storia corale allestita da Allen come pretesto narrativo per mettere insieme questo suo tributo un po’ senile a Roma e ai romani non funziona granché perché i vari segmenti narrativi di cui si compone la sceneggiatura sono scollati l’uno dall’altro e i personaggi (salvo forse proprio il regista d’opera in pensione interpretato da Allen stesso) non riescono a liberarsi di quella stessa aura da macchiette posticce che aleggia per tutta l’operazione, finendo così col risultare solo marionette bidimensionali in mano a un puparo demotivato.

Per finire, non si può non menzionare un dato relativo alla copia distribuita nelle sale italiane. Mentre nella versione originale del film nessuno se ne accorge perché gli “italiani” recitano nel loro inglese posticcio e intenzionalmente mal masticato, in quella in circolazione nelle nostre sale il pubblico si deve digerire una copia di Pordenone che parla con fortissimo accento romano (anche se la sceneggiatura ripete in più di un’occasione che i due sposini persi nel maremagno di Trastevere sono friulani spaesati). Così come la famiglia del fidanzato della figlia di Allen che, pur essendo presentati come romani de Roma, parlano ciascuno con l’accento regionale di provenienza, in una mini-babele involontariamente grottesca. O ancora tutti i “clienti” della prostituta Penélope Cruz che dovrebbero essere membri della Roma che conta, ma che invece formano un imbarazzante patchwork di sovrapposizioni linguistiche che non ha alcuna ragione di essere.

Peccato perché gli ingredienti per aspettarsi l’opera importante c’erano tutti. A partire dal cast stellare mobilitato (con Penélope Cruz di fatto al limite dell’imbarazzante in un ruolo di escort volgare che le sta stretto come il tubino rosso in cui è fasciata, per arrivare a un Alec Baldwin spaesatissimo e bolso che sembra sempre chiedersi “ma che ci faccio io qui?”) e dalla capacità che Allen ha dimostrato di saper far vivere nei suoi film il cuore pulsante delle grandi metropoli (basti pensare alla “sua” New York o alla Parigi di Midnight in Paris dello scorso anno, ma anche alla splendida Londra di Match point). Per arrivare fino alle potenzialità infinite dei mille cortocircuiti artistici che l’incontro-scontro tra due personalità come la sua e quella di Roberto Benigni – qui costretto a gigioneggiare riscaldando la minestra freddina del povero cristo convertito in celebrità senza motivo – avrebbero fatto sognare.

Trama

Nella Roma dei giorni nostri si intrecciano (senza però mai avere punti di contatto) quattro storie con al centro americani e romani variamente coinvolti in vicende destinate a cambiare la vita a ciascuno di essi.


di Redazione
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