To Be or Not To Be – Vogliamo vivere ! (versione restaurata)

Torna in sala, in edizione restaurata, una delle più note e amate commedie di Ernst Lubitsch, da molti considerata il suo capolavoro. To Be or Not To Be – titolo impropriamente tradotto in italiano con Vogliamo vivere! – è ambientato nella Polonia occupata dai nazisti e racconta la storia di una compagnia teatrale che riesce a fermare l’operato di una spia (il dottor Siletsky) al servizio dei tedeschi grazie a una serie di rocambolesche messe in scena ed esilaranti scambi di persona. E’ proprio la peculiare comicità di Lubitsch – sottile, irresistibile, ineguagliabile – il punto di forza dell’opera, che come poche (pensiamo al coevo capolavoro di Chaplin Il grande dittatore) riesce con acume e finezza a cogliere il ridicolo nel dramma e a destrutturare, a partire da questo, l’immagine (trionfale, prepotente, ridondante) della dittatura nazista e – di conseguenza – del potere degenerato tout-court.
Tanto Chaplin quanto Lubitsch muovono infatti dalla consapevolezza della necessità del potere di fondarsi e fondare la propria forza sulla potenza di un immaginario che lo identifichi, e procedono quindi distruggendo – con sagace ironia ed efficace comicità – questo stesso immaginario sul loro territorio, quello del cinema, che è ovviamente per sua natura la dimensione più idonea per questa operazione.
Andrè Bazin parlava, a proposito del protagonista Hinkel-Hitler de Il Grande Dittatore, di un “furto ontologico” che “poggia (…) sull’effrazione dei baffetti”[1]. Ontologico perché i baffi di Hitler diventano, in questo senso, segno identitario e simbolo. Afferma Bazin: “Primo passo: Hitler prende a Charlot i baffetti. Secondo round: Charlot si riprende i baffetti, ma questi baffetti non sono più soltanto dei baffetti alla Charlot, sono diventati, nel frattempo, dei baffetti alla Hitler. Riprendendoli, Charlot conservava dunque un’ipoteca sull’esistenza stessa di Hitler. Con essi, si portava dietro quest’esistenza, disponendone a sua guisa.”[2]
I baffetti come camuffamento/disvelamento dunque, creazione di un doppio, segno identificativo essenziale e assoluto; dinamiche affini prendono forma nel film di Lubitsch, che si apre con una sequenza emblematica da questo punto di vista. Siamo a Varsavia nel 1939, quando un giorno improvvisamente per le strade tutti si immobilizzano, come terrorizzati. La causa di quanto accade viene presto rivelata, è proprio “l’uomo dai baffetti”, Adolf Hitler, che passeggia in silenzio tra la folla e si ferma a guardare le vetrine. L’incubo viene spezzato poco dopo, quando una graziosa ragazzina si avvicina all’uomo e chiede, gentilmente: “Mi fa un autografo, signor Bronski?”. E’ stata l’unica a riconoscere l’attore che, grazie a un paio di baffetti, tutti hanno scambiato per il Führer.
E ancora, Joseph Tura, tra gli attori più in vista della compagnia, avrà un ruolo di primo piano nel “complotto” per eliminare il pericoloso cospiratore. Toccherà proprio a lui infatti impersonare la spia, salvo poi ritrovarsi chiuso negli uffici della Gestapo assieme al cadavere dello stesso Siletsky. Come riuscire a salvarsi, facendo passare per impostore il vero Siletsky? Tura rade la barba al morto e gliene applica una posticcia che si ritrova in tasca, convincendo così il colonnello nazista Ehrhardt della propria innocenza. Poco dopo verrà però fintamente smascherato dai suoi amici opportunamente travestiti da nazisti, che proprio tirandogli via la barba (finta, anche questa) lo additeranno come truffatore e lo trascineranno via, fingendo di arrestarlo e portandolo in realtà in salvo, sotto gli occhi esterrefatti del povero Ehrhardt ormai caduto nella confusione più totale.
Accanto a Jack Berry, che interpreta magnificamente appunto Joseph Tura – il prototipo dell’attore vanesio e compiaciuto di sé – recita la sfavillante Carole Lombard (alla sua ultima interpretazione prima della tragica morte) nel ruolo di sua moglie Maria Tura, seducente e maliziosa. Le tensioni amorose e le gelosie – anche professionali – tra la coppia sono alla base di molti tra i passaggi comici tra i più riusciti del film, che diverte con eleganza e intelligenza senza mai annullare la tragicità della Storia e, anche grazie alle parole di Shakespeare (il monologo dell’ebreo Shylock de Il mercante di Venezia, che qui si carica di nuovi significati) non disdegna in alcuni momenti un certo lirismo.
A distanza di più di settanta anni insomma il film di Lubitsch non sembra aver perso vigore ma anzi si conferma – considerando la perfezione dei tempi comici, i dialoghi vivaci e brillanti, il tocco delicato ma incisivo nell’affrontare un tema complesso e ricco di implicazioni – una grande lezione di cinema. E’ un esempio To be or Not To Be – forse uno dei migliori – di quel cinema che sa mantenere una lucida consapevolezza storica e politica senza tuttavia rinunciare al piacere puro della messa in scena e ad una certa leggerezza, dimostrando come nella mani di un regista sapiente e sofisticato – come Lubitsch ha saputo essere – la comicità e l’ironia non coincidono affatto con il disimpegno, ma anzi possono diventare un’arma estremamente efficace proprio in questo senso.
Trama
Maria e Joseph Tura sono gli attori di punta di una compagnia teatrale che, a Varsavia, sta per mettere in scena una commedia che mette alla berlina i nazisti. Ma lo spettacolo viene prima vietato dalla censura e poi impedito dall’invasione tedesca. Nel frattempo, il giovane tenente Sobinski – ammiratore di Maria – smaschera una spia nazista, il dottor Siletsky. Tutta la compagnia teatrale allora si mette all’opera per fermare il pericoloso e infido Siletsky, ponendo così le proprie strabilianti doti attoriali a servizio della causa della Resistenza.
[1] André Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti Elefanti, Milano, 1999, pag. 53
[2] Ibidem, pag. 51
di Arianna Pagliara