This must be the place

Cheyenne, ex rockstar, capelli cotonati, rossetto leggermente sbavato, occhi dipinti di nero e cerone. Protagonista di lunghe camminate su strade diverse e ritmicamente battute dalla cadenza dei suoi passi, appesantiti dagli anfibi e dalla noia. La sua è una quotidianità fatta di frangenti di socialità che smuovono fugacemente una solitudine perenne, come quel soffio a mezza bocca che scosta una ciocca di capelli che sempre ricade sulla fronte.
Cheyenne, come Titta de Le conseguenze dell’amore, come Tony de L’Uomo in più, come il “divo Giulio”: Paolo Sorrentino si conferma fedele a se stesso (fin troppo) nella predilezione di personaggi soli e aforistici, circondati da un’aura di reverenza e devozione che è anche ieratica, tragica, solitudine. Anche in quest’ultimo This must be the place rappresenta il suo “retired rocker” malinconico e alienato, ma ravvivato dalla cinica ironia di chi il cielo l’ha toccato con un dito e può dire che, in fondo, non è tutto questo granché.

Come tutti quei personaggi, l’impenetrabilità diventa cifra del loro intimo mistero e del loro poetico riscatto. Qui l’occasione è offerta da una pesante eredità lasciata dalla morte del padre: ebreo salvatosi dai campi di concentramento, per anni aveva invano cercato il suo aguzzino di Auschwitz. A monte della decisione di portare a termine la caccia all’uomo c’è il senso di colpa per i trent’anni di silenzio verso il genitore e per la consapevolezza di non aver mai avuto il coraggio di crescere. E da Dublino Cheyenne parte alla volta degli States.
Sin dall’inizio il protagonista esibisce un’ intima e umana forma di randagismo che accenna un implicito confronto con il cane, animale molto presente nel film. Ma soprattutto, gli ambienti sono tutti spazi spaesanti benché domestici o lande sconfinate che lasciano intravedere una qualche meta o, se non altro, ne esprimono una qualche ricerca. C’è la villa irlandese abitata insieme alla moglie amorevole, dove quei “sorrentiniani” campi totali, con la macchina da presa che indietreggia, col personaggio calato in uno straniante centro geometrico, fanno da traduzione visiva alla noia, mentre gli oggetti che lo circondano, si veda la piscina, sono come lui abbandonati a una dimenticanza accidiosa che li priva della loro essenza e del loro senso. Dall’altra parte c’è l’America, destinazione di un viaggio in progress, reale e metaforico, che divide in due il racconto.

A saldare il tutto, quella caratteristica andatura del protagonista, fiacca e cadenzata, che si trascina dietro il carrello della spesa o il trolley, emblematiche “coperte di Linus” del Cheyenne eterno bambino in un corpo da cinquantenne mascherato. Così, con fardello al seguito, abbandona l’intoccabilità solitaria dell’inizio per approcciarsi e scontrarsi con una realtà oggettiva, storica e soprattutto condivisa, per iniziare a stabilire un rapporto col mondo, o col proprio passato… o con se stesso.

Sorrentino indugia sui passi, sulle strade, sulle modalità di attraversamento che mettono in rapporto i primi con le seconde, come la passerella mobile -tanto cara sin dal tempi de Le conseguenze dell’amore– a sottolineare l’inerzia iniziale del personaggio, emotiva prima che fisica. Carrellate lente lo precedono o lo seguono, le inquadrature basse accolgono l’entrata in campo dei passi. Il regista combina diversi movimenti di macchina su diversi assi, spesso con motivazioni un po’ arbitrarie, un po’ autocompiaciute, come nella scena del concerto di David Byrne -che firma anche la colonna sonora- nei panni di se stesso. Dove invece il ritmo si fa più serrato e asciutto, proprio lì si affaccia una nuova efficacia espressiva fatta di buio e luce, di fotogrammi di un dramma immane che sparano pallidi bagliori su volti impassibili e sgomenti, di una testimonianza storica -l’Olocausto- che scuote ferocemente il presente sotto i colpi mitraglianti del proiettore di diapositive. Autenticamente Sorrentino realizza in più momenti un’interscambiabilità tra l’arma da fuoco e la fotografia, anche attraverso un’analogia del sonoro. D’altronde per il colpo di pistola e lo scatto fotografico l’inglese utilizza la stessa parola: shot. E la tensione sale, la violenza si fa più sottile e più tagliente e non lascia più morti al suolo ma solo immagini potenti.

Peccato che tali spunti non ricevano il giusto trattamento, sacrificati nella seconda parte da inutili divagazioni da turista europeo in viaggio negli Usa: si trovano motel squallidi, robusti sconosciuti pronti a fare due chiacchiere al bar, gas station nel deserto, il curioso gigantismo a stelle e strisce del pistacchio più grande del mondo o dell’enorme bottiglia di birra issata a bordo strada. Nonostante il budget notevole e il cast di tutto rispetto, l’internazionalità di This must be the place non apporta quel surplus qualitativo che ci aspetterebbe. E si ha l’impressione, fastidiosa, che l’Olocausto sia stato abbozzato o, peggio ancora, messo lì furbamente, che nemmeno un attore straordinario come Sean Penn, fin troppo penalizzato nel doppiaggio italiano, riesca a tenere le redini di un racconto che si dipana per sintesi visive, belle ma spesso fini a se stesse.

TRAMA

Cheyenne, ex rockstar di origini ebraiche, passa i suoi giorni tra la villa di Dublino, dove vive insieme alla moglie e gli incontri pomeridiani con una giovane amica e confidente, finché la morte del padre, con cui non ha rapporti da trent’anni, lo porta a spostarsi negli Usa.  Qui decide di portare a termine la missione per la quale il genitore aveva speso un’intera vita: scovare il criminale nazista che lo aveva umiliato nel campo di concentramento di Aushwitz. Per Cheyenne inizierà un viaggio che lo porterà in cinque diversi stati americani, tra la caccia all’uomo e la ricerca di se stesso.


di Redazione
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