The Wrestler

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rourke-the_wrestlerAlla 65a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografia di Venezia, The Wrestler venne presentato praticamente come ultimo film in concorso. C’era aria quasi di smobilitazione e la stanchezza tipica delle ore conclusive di un Festival internazionale come quello di Venezia, convulso e molto lungo. Certo, il film di cui stiamo parlando era stato annunciato come il ritorno in grande stile di Mickey Rourke, ma il ricordo del precedente lungometraggio diDarren Aronofky, l’insopportabile e astruso L’albero della vita, faceva pensare all’ennesimo fallimentare tentativo ultraintellettualistico del pur talentuoso regista di Brooklyn.
La sorpresa invece fu grande e positiva. The Wrestler arrivò come un pugno nello stomaco, come un elettroshock, in un concorso per lo più soporifero e sottotono. Merito certamente era di Mickey Rourke, attore da tempo in grave crisi professionale che invece tirava fuori dal cilindro un’interpretazione tra le migliori della sua controversa e discontinua carriera. Ma anche ad Aronofky doveva essere attribuito il giusto riconoscimento. Il suo impianto registico, contraddistinto da un realismo crudo e sanguinolento, l’uso della macchina da presa, sempre incollata alla carne e al volto del personaggio principale, la forza drammatica e “sporca” di ogni sequenza, contribuiva a rendere The Wrestler un film caratterizzato da una notevole potenza espressiva.
Oggi, il lungometraggio vincitore del Leone d’oro è arrivato nel circuito delle sale commerciali italiane, forse con un ritardo eccessivo (…vai a capire i meccanismi della distribuzione italiana).
Ebbene, si tratta di un’opera che oltre a colpire dal punto di vista linguistico/narrativo tocca profondamente le corde di un’emotività mai però banalmente patetica.
Gli elementi che compongono il racconto non sono del tutto nuovi, specie per quel che riguarda il cinema americano. La contraddizione tra realizzazione personale e cura della famiglia, l’abbandono, la solitudine, il rapporto padre-figlia, la vecchiaia e la malattia, il decadimento fisico e il disperato desiderio di riconquistare gli affetti, il successo perosnale e i sentimenti, il sogno americano defunto e la realtà quotidiana difficile da accettare, sono fattori a cui gli spettatori occidentali sono decisamente abituati. Insomma, non è in ambito contenutistico che bisogna rintracciare i pregi di quest’opera, quanto piuttosto nella sua struttura formale e nella capacità da parte del protagonista, uno straordinario e commovente Mickey Rourke, di rendere credibile (addirittura simpatico) un personaggio perdente, forse patetico, certamente atrocemente solo.

Maurizio G. De Bonis

Note critiche
di Leonardo Gregorio

The wrestler di Darren Aronofsky è, in sostanza, la storia dello scacco esistenziale del lottatore di wrestling Randy “The Ram” Robinson (Mickey Rourke) il quale, dopo aver conosciuto fasti e successi negli anni Ottanta, si trova oggi in una condizione di vita assai precaria, barcamenandosi tra sporadici combattimenti e qualche lavoretto. Il lottatore disfatto di Rourke, la cui grande interpretazione dà al personaggio una forza e una credibilità particolari, è un uomo solo, disadattato; a suo agio soltanto sul ring, si muove spesso in modo incerto e quasi goffo nel mondo reale in cui non ha punti di riferimento, anche se cerca di averne, tentando di riallacciare, o meglio di avviare, i rapporti mai avuti con sua figlia (Evan Rachel Wood) e intravedendo in una spogliarellista (Marisa Tomei) la possibilità di un amore o quantomeno di una comunione affettiva. In effetti, pur essendo Rourke il protagonista incontrastato del film e perno centrale della storia, il suo personaggio risulta senz’altro arricchito e più complesso se visto alla luce dei suoi insicuri legami con la figlia ma soprattutto con la ragazza dello strip club. I due, infatti, sono personaggi per certi versi speculari: esistono in funzione del loro corpo, e il loro essere visibili agli altri nasce nel momento in cui varcano l’ingresso del palcoscenico per eseguire il loro numero e termina nell’attimo stesso in cui lo spettacolo si conclude, quando i due tornano alla loro difficile vita, distante dalle luci e da spettatori eccitati e vogliosi. Le figure di Rourke e della Tomei sono complementari, sono personaggi assai fragili, hanno paura del mondo e, in tal senso, particolarmente indicativo è quanto l’uomo dice alla donna prima del suo ultimo incontro: che il ring è l’unico posto dove non si fa male.
I loro stessi corpi sono opposti ma in qualche modo complementari: gonfiato, ingombrante e supermassiccio quello di lui; leggero, sinuosamente imperfetto quello di lei. Tuttavia sono corpi destinati a un avvicinamento solo superficiale nella dimensione dello spettacolo, dell’esibizione, ma che non riescono mai a incontrarsi veramente nella realtà. La loro fisicità è da una parte marchio di riconoscimento e dall’altra fattore gravemente limitante: essa viene ostentata nei loro show, dà loro una identità transitoria, ma una volta fuori dalla “scena” essa viene quasi trattenuta, sembra perdere il suo valore qualificante e li “anonimizza”, o se si manifesta lo fa all’insegna dell’istinto più banale che genera drammatiche conseguenze (si pensi alla scena di sesso tra Randy e una ragazza che costerà all’uomo l’allontanamento definitivo dalla figlia).
La macchina da presa resta agganciata in maniera non invasiva né compiaciuta sul corpo di Randy seguendone i movimenti più ordinari tra gli scaffali di un negozio o per le strade, osservandolo mentre si muove nella sua squallida dimora o durante il suo saltuario lavoro al bancone gastronomico di un supermercato, e soprattutto gli sta addosso durante i combattimenti, mantenendo quasi sempre una certa delicatezza della rappresentazione nonostante la durezza di ciò che viene rappresentato. Ed è anche questo aspetto che conferisce valore al film: l’opera di Aronofsky si contraddistingue per la sua sostanziale diversità rispetto a un contesto cinematografico sovrabbondante di violenza gratuita e voyeurismi sempre più spiccioli, senza mai indulgere a una messa in scena plastificata e fumettistica. Il suo antieroe è un megacorpo, è eccessivo, smisurato, ma resta umano; è un personaggio vivo: le sue ferite fanno male, l’infarto che lo colpisce dopo un incontro cruento è vero, egli soffre e lo spettatore lo sa.

Leonardo Gregorio


di Maurizio G. De Bonis
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