The Visit

Leggendo la scheda tecnica di The Visit, la cosa che salta immediatamente all’occhio è che a produrre l’ultimo film del controverso regista indiano M. Night Shyamalan (ma cresciuto a Philadelphia) sia stata la Blumhouse Productions. Ovvero la casa creata nel 2000 da Jason Blum e divenuta in pochi anni sinonimo del cinema horror di qualità che coniuga forte propulsione innovativa all’interno dei canoni del genere a sagace capacità di convertire budget risicatissimi in grossi successi al botteghino.

Per chi non avesse troppa dimestichezza col tipo di avventura produttiva basti citare il fatto che nel 2007 Blum ebbe l’idea geniale di investire 15.000 dollari in Paranormal Activity, inatteso trionfo nelle sale e presto titolo di culto destinato a fare da apripista a molte altre analoghe iniziative nel settore. Nel giro di appena otto anni Blum ha infatti saputo fare da mentore a film quali Insidious, Sinister, La notte del giudizio, Le streghe del Salem, The Bay, Oculus, The Lazarus Effect e il recentissimo Unfriended, imponendo sul mercato una sua originalissima idea di cinema a basso costo affidato alla distribuzione delle major per ridurre ancor di più i costi di produzione.

Ma se si considera che il vero colpo di genio di Blum è stata l’idea di produrre una scommessa quale Whiplash (relativo insuccesso ai botteghini ma poi protagonista nei festival di mezzo mondo oltre che nella cinquina di titoli nella notte degli Oscar dello scorso anno), allora può sembrare un po’ meno sorprendente il fatto che un autore appartato e spesso massacrato dalla critica per gli eccessi di macchinosità di molte delle trame dei suoi film abbia scelto di farsi finanziare proprio da Blum la sua ultima fatica.

A questo proposito non dev’essere però trascurato un dettaglio assai importante: negli ultimi anni il regista indiano (che con titoli quali Il sesto senso, Unbreakable – Il predestinato e soprattutto con The Village sembrava essere avviato a diventare un vero autore di culto) aveva chiaramente dato l’impressione di aver perso quell’iniziale slancio propulsivo pieno di forti spinte innovative e sempre proteso a esplorare nuovi orizzonti della creatività. A confermare questa preoccupante involuzione erano stati sia il suo ultimo lavoro, ovvero il non troppo riuscito After Earth, e in parte anche la serie TV Wayward Pines, pur se accolta con favore da una discreta fetta di telespettatori ma anche dai cultori del suo cinema, ansiosi di poterne ritrovare sul piccolo schermo gli stilemi tipici di un’estetica difficile da imitare.

Inevitabile quindi che l’offerta fattagli da Jason Blum di finanziare il suo nuovo progetto per poi distribuire il prodotto finito tramite i canali di una delle grandi major del mercato Usa (in questo caso la Universal Pictures) fosse difficile da declinare. Cosa che Shyamalan non ha fatto, accettando però di adeguarsi solo in minima parte a quelli che sono ormai da anni i canoni del cinema prodotto dalla casa di Blum. E cioè il famigerato false footage realizzato con la telecamera a mano e l’abusata tecnica del POV tanto cara a chi ama l’horror casareccio inaugurato da Paranormal Activity (che a sua volta ripercorreva furbescamente il sentiero aperto da The Blair Witch Project).

Ma si tratta di concessioni minime che il regista e sceneggiatore indiano fa probabilmente per giustificare in maniera del tutto superficiale la «marchetta» di lusso accettata pur di poter produrre un progetto che evidentemente gli stava a cuore e che forse non aveva riscosso lo stesso entusiasmo presso altri produttori, scottati da suoi precedenti lavori nei quali agli investimenti produttivi non erano spesso seguiti adeguati ritorni al botteghino.

Raccontando una sorta di Hansel e Gretel 2.0 riveduta e corretta con la sensibilità dei giorni nostri, Shyamalan si allinea alla direttive della casa non solo con l’accettazione integrale del genere di appartenenza della vicenda che racconta (un horror tutto atmosfere gotiche e snervanti attese cariche di sinistre premonizioni), ma soprattutto con l’introduzione di una cornice narrativa esterna alla vicenda stessa nella quale la tecnica cinematografica scelta per il racconto in immagini è proprio la specialità della casa, ovvero il film nel film girato da uno dei protagonisti.

Che in questo caso è la sedicenne Becca: mandata dalla madre single insieme al fratellino Tyler a trascorrere una settimana di vacanza presso i nonni materni in una landa desolata della Pennsylvania, la ragazzina decide di girare un documentario sulla propria madre e sulle ragioni per cui, quindici anni prima, la donna aveva deciso di andarsene da casa apparentemente senza motivo alcuno e non intrattenendo poi più rapporti coi propri genitori per i tre lustri successivi.

Ed ecco che la ricostruzione della settimana trascorsa presso i nonni e scandita in capitoli corrispondenti ai singoli giorni di permanenza presso la loro fattoria persa nel nulla della campagna risulta di fatto l’unico vero elemento di possibile connessione con troppi altri prodotti seriali (pur nella loro indubitabile riuscita artistica e successo commerciale) sfornati dalla factory di Jason Blum. Il resto è tutto farina del sacco di Shyamalan, che pur dovendosi in parte piegare a questo compromesso produttivo, non rinuncia mai a imporre con categorica fermezza le idee visuali e narrative che da sempre sostengono il suo cinema.

Il suo adeguarsi a un genere (che in parte appare fugace in quasi tutti i film da lui realizzati in passato imprimendo loro una coloritura che li fa galleggiare sempre nella terra di nessuno tra il thriller psicologico e l’horror senza bagni di sangue e cianfrusaglie di contorno assortite) consiste soprattutto nel piegarlo alle proprie esigenze più che accettare che avvenga il processo contrario.

L’orrore della casa maledetta si manifesta in maniera progressiva senza però avere il sopravvento su ciò che sta veramente a cuore al regista indiano. E cioè mostrare ancora una volta una delle tante facce dell’isolazionismo tipico del cittadino americano medio. Un comportamento che discende dal culto dell’individualismo tipico di quel mondo e che spesso degenera in comportamenti deragliati e psicologicamente malati. Come puntualmente accade in questa fiaba nera al cui centro c’è la famiglia come nucleo disfunzionale del sistema e come trappola mortale per quanti vi dovrebbero invece trovare — come i due nipotini ospiti dei nonni — il porto protettivo contro l’orrore che regna sovrano nel mondo.

Nel film non si ricorre infatti mai ai tipici trucchi del cinema dell’orrore. Solo ciò che si vede e che è davvero orribile può spaventare sul serio. Ed ecco quindi la serie di scoperte progressive che i fratellini fanno col passare dei giorni, ciascuna mostrata nella sua evidenza cartesiana come un nuovo tassello che si aggiunge nella loro privata odissea del terrore. Un viaggio iniziatico verso la notte della follia al termine della quale lo spettatore scoprirà con loro come la sola natura veramente mostruosa sia quella che si annida dietro la facciata della normalità presunta.

Fedele però alla sua idea di cinema che deve saper intrattenere mantenendo viva l’attenzione del pubblico in sala anche col ricorso a continui colpi di scena che in altri autori sarebbero subito bollati come espedienti di maniera, in The Visit Shyamalan non si smentisce e dimostra ancora una volta di essere un abilissimo costruttore di congegni a orologeria narrativa capaci di intrappolare la mente sconcertandone le previsioni logiche con scarti imprevedibili che la colgono con la guardia abbassata.

Inutile quindi anticipare il finale del film, uno dei veri pezzi forti dell’intera operazione e autentica invenzione di genio in una sceneggiatura perfetta nella sua capacità di alternare momenti di terrificante sospensione di attesa ad altri nei quali l’orrore viene mostrato con disarmante semplicità nel suo palesarsi progressivo col passare delle ore e dei giorni trascorsi nella casa abitata da mostri.

Come già accaduto agli ultimi film di Shyamalan, negli Usa The Visit non è andato affatto bene. Se l’elogio che ne hanno fatto invece sui “Cahiers du cinéma” potrà bastare a invertire la tendenza, lo si vedrà a fine settimana con le cifre degli incassi alla mano. Quel che è certo è che questo geniale artigiano è probabilmente l’autore più ingiustamente sottovalutato dell’intero panorama cinematografico internazionale di questi primi due decenni del nuovo millennio.

Trama

Becca e suo fratello Tyler vengono mandati a casa dei nonni, Nana e Pop Pop (che però non hanno mai visto in vita loro), per una settimana di vacanza in una fattoria sperduta nella campagne della Pennsylvania. Quando i due adolescenti iniziano a fare inquietanti scoperte sulla coppia di anziani, le loro possibilità di tornare a casa dalla mamma sani e salvi si riducono col passare dei giorni.


di Redazione
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