The Tribe

Trionfatore assoluto a Cannes 2014 della «Settimana della Critica», questo esordio nel lungometraggio del documentarista ucraino Myroslav Slaboshpytskiy è destinato a conquistarsi un posto nella storia del cinema e a rimanere a lungo nella memoria del pubblico che ha avuto e avrà l’occasione di confrontarsi con i 130 ferocissimi minuti di questa sinfonia del silenzio. E le ragioni di un giudizio così sbilanciato e forse eccessivamente ottimistico non stanno tanto nel soggetto intorno al quale ruota la vicenda (la violenza gangsteristica vista come normalità quotidiana all’interno di un gruppo ristretto di studenti handicappati), quanto piuttosto nel linguaggio filmico – o nella sua negazione – scelto dall’autore per raccontarla.

Dopo anni di cinema che ha raccontato l’handicap sfruttandolo cinicamente per imbastire vicende strappalacrime tutte incentrate sul patetismo e sulla retorica della denuncia dell’emarginazione, The Tribe capovolge in maniera radicale la prospettiva sforzandosi di raccontare un certo tipo di handicap come normalità affetta dallo stesso malessere socioculturale responsabile del marciume di quanti non hanno alcun tipo di handicap e rappresentano la normale società civile. E fin qui non ci sarebbe nulla di rivoluzionario, se non fosse che Slaboshpytskiy sceglie di affrontare questo ribaltamento di prospettive con un approccio linguistico che non ha precedenti al cinema.

Come annuncia minacciosa una scritta su sfondo nero prima che tutto abbia inizio, il film è recitato «nel linguaggio dei segni dei sordomuti» e che di proposito «non vi sono traduzione, né sottotitoli né voice over». Per 130 minuti lo spettatore viene coinvolto in un’avventura della percezione nella quale le coordinate del tradizionale sentire con la mente sono stravolte: mentre i personaggi del film comunicano tra di loro con il linguaggio dei segni nell’invalicabile mutismo che li contraddistingue e sullo schermo si sentono (di rado) soltanto rumori d’ambiente che fanno da labile cornice sonora al tutto, chi guarda quanto accade sullo schermo subisce la stessa emarginazione cui sono sottoposti i sordomuti nei contesti di tradizionale comunicazione verbale.

Il trasferimento dello stato di handicap da chi ne è affetto a chi non lo è rappresenta di fatto la vera rivoluzione linguistica del film. Si tratta cioè di un depistaggio intenzionale in cui le gerarchie vengono ribaltate e chi si trova a dover combattere con l’emarginazione non è tanto l’oggetto stesso di quello stato di collocazione ai margini, ma chi di solito è responsabile primo dell’emarginazione stessa relegando la diversità alla periferia della società civile. L’effetto è devastante perché in questo ardito testacoda del linguaggio filmico chi si sente escluso non è il sordomuto ma paradossalmente chi sordomuto non lo è affatto.

A scanso di equivoci va però detto che The Tribe non è un film dedicato ai non udenti (spesso sfruttati al cinema in chiave di grottesco comico, e basti pensare alle scelte furbette in tal senso del recente La famiglia Bélier), né tanto meno alla promozione del linguaggio dei segni. Cosa questa tecnicamente impossibile perché ogni paese ha il «suo» linguaggio dei segni e quindi il film non potrebbe essere sdoganato come un’opera che parla di emarginati della comunicazione verbale rivolgendosi esclusivamente a quanti sono affetti da questo tipo di limitazione.

Slaboshpytskiy è partito da un suo precedente documentario che si intitolava significativamente Deafness per la cui realizzazione era entrato in contatto con parecchie comunità di sordomuti dell’Ucraina. Il passaggio da quell’idea di rappresentazione fatta col linguaggio saggistico del documentario alla dilatazione e alle inevitabili falsificazioni narrative della finzione è stato un passo quasi naturale. Prova ne sia che la maggior parte degli «attori» di The Tribe sono non professionisti presi dalla strada e privi di alcun precedente in campo cinematografico che il regista pedina con camera a mano o che inchioda in soffocanti piani-sequenza in cui li lascia liberi di far esplodere tutta la rabbia che hanno dentro.

Se non ci fossero queste premesse di natura stilistica a condizionare le modalità del racconto, la vicenda narrata in The Tribe potrebbe assomigliare molto da vicino a un qualsiasi film incentrato su gang giovanili e sulla violenza bruta che ne caratterizza il modus operandi. Con la sola differenza che qui siamo in un istituto scolastico presumibilmente a Kiev e che quindi il concetto di gang viene inserito all’interno del contesto assai abusato del college movie. Ma si tratta di semplici specchietti per le allodole che mostrano la loro inconsistenza già nella prima sequenza, là dove Sergey, il protagonista, butta in faccia allo spettatore la tragicità della propria condizione cercando invano di sapere da una passante dove sia la scuola che dovrà frequentare e nella quale lo spettatore lo vedrà agire per le successive due ore di pellicola.

Una volta arrivato a destinazione, Sergey ci mette poco a capire come vadano le cose all’interno dell’istituto. Una gang di studenti più «anziani» (ovvero la “tribù” del titolo con cui questo pluripremiato lungometraggio d’esordio ha rastrellato riconoscimenti in giro per il mondo) domina incontrastata. Grazie alla connivenza di uno dei dirigenti scolastici e l’attiva collaborazione dell’insegnante di una delle materie tecniche, i delinquenti in erba taglieggiano i più piccoli terrorizzandoli con la violenza, spacciano droga indisturbati, escono la notte a organizzare rapine e abusano di due compagne bellocce che costringono a prostituirsi in un parcheggio di camionisti (senza che però le due facciano una piega, visto che cercano di sfruttare la spiacevole congiuntura per racimolare il denaro necessario per il visto d’ingresso in Italia).

Dopo essere stato oggetto di un paio di tentativi di bullismo (che però non vanno a buon fine perché la vittima ha la scorza più dura dei carnefici), Sergey diventa uno dei leader della gang impiegandoci pochissimo ad adeguarsi al clima di intimidazione diffusa che regna nella scuola. Ma quando perde la testa – corrisposto – per la più carina delle due ragazze costrette a vendersi ogni sera e decide di farla finita con l’orrendo mercimonio, i «goodfellas» con cui semina il terrore fuori e dentro l’istituto cercano di metterlo al suo posto infliggendogli una punizione esemplare. Ma non hanno fatto i conti con la rabbia che gli cova dentro e non possono prevedere la feroce mattanza che li aspetta in una notte dai lunghissimi coltelli.

Film che andrebbe visto da tutti ma che non è certo indicato per tutti, The Tribe non risparmia scene di feroce crudezza (la peggiore delle quali è l’insopportabile sequenza di dieci minuti nella quale viene mostrato con impietosa dovizia di particolari l’aborto clandestino cui si sottopone una delle due studentesse-prostitute quando scopre di essere rimasta incinta) che denunciano in maniera evidente il retroterra documentaristico del suo autore. Una caratteristica questa che da una parte è di certo un pregio per la capacità che il film ha di rappresentare un microcosmo criminale senza mai prendere le parti di alcuno dei suoi protagonisti, ma che dall’altra indulge troppo spesso in lunghi e superflui pedinamenti dei ragazzi impegnati in scene di raccordo poco funzionali alla narrazione e destinate a dilatare la durata del tutto ben oltre il necessario.

The Tribe, essendo stato girato proprio mentre iniziavano in Ucraina gli scontri che poi avrebbero portato alla guerra civile ancora in atto nel paese, è però anche metafora di una precisa condizione esistenziale: e cioè di quella parte di società – i giovani (anche se qui messi a fuoco nella dimensione emarginata dell’handicap comunicativo) – che dovrebbero essere la speranza del mondo di domani e che invece, già marci alla sorgente, non possono che garantire un’accelerazione verso il baratro a una società già pericolosamente in bilico sull’abisso.

Trama

In un istituto ucraino per sordomuti il neo arrivato Sergey ci mette poco a capire come vadano le cose: una gang dei ragazzi più grandi (la «tribù» del titolo) tiene sotto controllo tutti e tutto con la legge dell’intimidazione e della violenza. Dopo essersi inserito alla perfezione nell’ambiente e aver contribuito in maniera consistente a rapine, furti, spaccio e favoreggiamento della prostituzione di un paio di compagne, Sergey perde la testa ricambiato per una delle giovani studentesse-squillo. Da quel momento in poi tutto cambia precipitando verso una feroce resa dei conti finale in cui nessuno sarà risparmiato.


di Redazione
Condividi