The Surfer

La recensione di The Surfer, di Lorcan Finnegan, a cura di Sergio Sozzo.

La scritta “Locals Only” compare anche sul muretto che cinge la spiaggia di Un mercoledì da leoni di John Milius, e la filosofia del “localismo”, ovvero la regola non scritta delle comunità stanziali di surfisti per cui “you don’t live here, you don’t surf here” è da sempre nel bene e nel male uno dei capisaldi della filosofia legata al surf-pensiero. Chiaramente, in Australia la battaglia per la propria porzione di onde richiama spauracchi ancestrali mai davvero sopiti, che parlano di colonialismo e di popolazioni native ricacciate nei recinti.

Oltre che un riferimento all’ambigua fascinazione, da parte di certe concezioni del surf come sfida contro sé stessi, per una visione suprematista della società, che si avvicina a posizioni politiche opposte a quelle con cui siamo soliti immaginare i fricchettoni che passano le notti a fare falò sulla sabbia (com’è noto, sempre in Un mercoledì da leoni appare una svastica su di una delle tavole da surf, in quel caso connessa con l’originario significato spirituale del simbolo). Su questo si esprime chiaramente un cult del cinema surf di fine anni ’80 dal titolo incontrovertibile, Surf nazis must die.

Tutto ciò per dire che il nuovo film del Lorcan Finnegan di Vivarium è molto più complesso di quanto possa lasciar intendere la cornice da Cage-movie purissimo in trasferta australiana, nella quale al nostro Nicolas vengono comunque lasciati tutto lo spazio e la libertà per scatenare la sua ennesima, benedetta, irresistibile e incontenibile performance impermeabile a qualsiasi buonsenso recitativo. L’interprete è fondamentalmente solo in scena per una larghissima porzione di film, vittima del suo delirio sotto il solleone di un parcheggio rovente da cui sembra impossibilitato ad allontanarsi, in attesa di una beckettiana telefonata risolutoria da una cabina pubblica (inizierà ad un certo punto a portarsi in mano la cornetta staccata dal filo appresso come fosse un cellulare): il Cage recente più vicino a quello di The Surfer è probabilmente allora quello “d’autore” dello strepitoso Colour out of space di Richard Stanley, lì come adesso preda di un loop allucinatorio con istanti di viaggio astrale fuori dal corpo – e se, dall’esterno, il protagonista iniziasse a vedersi non più come l’uomo che vuole riconquistare il proprio status sociale (la casa di proprietà, l’automobile, l’orologio, lo smartphone, l’anello nuziale) ma come il barbone che sembra vivere in quello spiazzo da sempre? Quale sarà tra i due volti della stessa medaglia a mettere in atto la propria sanguinosa rivalsa, la faccia accettabile o quella indesiderata? Il padre o il figlio?

Finnegan recupera la ferocia, la cattiveria e la grana visiva di certo cinema anarcoide dei primi anni ’70, il Boorman di Un tranquillo weekend di paura ma soprattutto il Peckinpah di Cane di paglia: per la combriccola di surfisti capitanati dal guru Scally (il redivivo Julian McMahon, efficacissimo) affrontare insieme le onde della loro spiaggia di zona non ha nulla a che vedere con le good vibrations da sempre associate al credo dei vari Bohdi e Jeff Spicoli del cinema, ma è solo una maniera per costituirsi in una sorta di loggia, di élite sociale (lontani dalla sabbia occupano tutti posizioni di potere tra le banche, i proprietari terrieri, la sanità…) erta a difesa della propria stessa catena di discendenza familiare (quella che per il protagonista è invece una sorta di maledizione da sfatare). In questo gioco continuo di rovesciamento con il canone del genere, Finnegan trova il perfetto contrappunto musicale nella sorprendente colonna sonora di François Tétaz, fatta tutta di cori, archi e bassi rotondi in perfetto stile exotica.


di Sergio Sozzo
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