The Square – Inside the Revolution

Quando è successo che le guerre sono diventate uno spettacolo mediatico, da “fruire” comodamente seduti sul divano di casa davanti a uno schermo tv? Da quando siamo diventati “telespettatori distratti di sofferenze altrui”, da stimolare magari mediante ricorso ad “effetti speciali”, specie se in prossimità dei commercial? La risposta è nota: è stato con “Desert Storm”, la prima “guerra del Golfo” scatenata dal Presidente Bush (senior) e definita “la prima guerra del villaggio globale”. Correva l’anno 1991, e la nostra vita sarebbe cambiata, almeno rispetto all’”esperienza” della violenza, anche la più estrema, comunque ben lontana da noi (lo spiega bene, tra gli altri, Antonio Scurati in un suo saggio del 2006, “La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione”).

Ma cosa avviene oggi, al tempo di Youtube e di Twitter? E’ dell’era dei social che è infatti il frutto un’opera aperta e in progress come The Square-Inside The Revolution che dopo i successi al Sundance 2013 e sull’onda della candidatura agli Oscar 2014 (è nella cinquina come miglior film documentario) è al centro di una operazione cross-mediale  che coinvolge I Wonder Pictures per la distribuzione in sala, laEffe (canale 50 digitale terrestre) per la trasmissione in tv (passa mercoledì 26 Febbraio alle 22.30) e la Feltrinelli Real Cinema (che editerà il Dvd in aprile).

Ma è lecito considerare questo film un documentario? Le classificazioni sono sempre vincolanti e fuorvianti, specie in un caso come questo in cui  Jehane Noujaim,  regista egiziana ma formatasi negli USA e in giro per il mondo, decide di tornare in patria per raccontare -dall’estate 2011 a quella del 2013- l’incompiuta rivoluzione egiziana, concentrando lo sguardo attorno al suo cuore pulsante – la piazza Tahrir. Noujaim compie infatti con The Square un’operazione articolata ed avanzata sia rispetto alla consolidate retoriche visivo-narrative ed emotive del reportage e del documentario “di guerra”, ma anche rispetto ai suoi stessi lavori precedenti, in particolare quel Control Room (2004, ormai dieci anni fa) in cui rifletteva sulle contraddizioni e in non detti delle politiche mediatiche governative e del giornalismo embedded ai tempi della guerra in Iraq (quella di Bush junior).

Se dall’inizio degli anni ’90 i reportage televisivi, anche quelli di ottima fattura, provenienti dai più disparati e cruenti  “set di guerra” hanno dunque finito per alimentare quella sorta di  distacco (che certo è anche  difesa psicologica dagli orrori del mondo), la regista sceglie qua una strada antitetica: toglie allo spettatore ogni comfort zone, lo trasporta con forza sul campo, lasciandolo in balia di se stesso, libero solo di  decidere se chiudere gli occhi (specie di fronte a immagine anche assai dure di sangue e di morte) oppure “restare” e farsi coinvolgere.

Per fare questo opera su più livelli. In primo luogo, lo stile.

La camera di Noujaim corre di continuo e senza posa, frenetica e caotica come è del resto ogni vera rivoluzione, specie se di piazza. Pedina, anzi insegue,  i personaggi, li segue frontalmente o in soggettiva, alterna inquadrature ravvicinate e scene corali. Il montaggio amplifica e velocizza ancora di più il tutto.  La regista inquadra spesso l’immensa piazza dall’alto (dai balconi dei palazzi, supponiamo, ma l’effetto è come di una instabile visione aerea), poi plana tra la folla che ondeggia di continuo come mare in tempesta. Usa tutta la gamma delle inquadrature del cinema, dal campo totale sino ai primissimi piani dei volti dei protagonisti e al particolare di una ferita o di una mano che scaglia una pietra. Spesso piomba dall’alto in mezzo alle strade della città a isolare la figura intera del giovane Ahmed Hassan che cammina al centro della carreggiata noncurante delle auto che gli sfrecciano accanto: Ahmed è del resto un fiero e coraggioso ventenne, figlio del popolo, e, oltre che una delle figure centrali, è anche la voce narrante del film. La scena, in realtà, amplificata da chiari effetti speciali da post-produzione, si ripete fin troppe volte e in modo un po’ compiaciuto a nostro avviso. Ecco, se dobbiamo esprimere un giudizio critico, troviamo che a fronte di un innegabile talento registico, The Square cammini spesso sul filo del “carrello di Kapò” (quando e dove fermarsi rispetto all’orrore?) e spesso riveli  un certo compiacimento stilistico, nelle inquadrature, ma anche in certi snodi di montaggio.

Del resto, la regista agisce oltre che coraggiosamente (è stata anche tenuta in arresto dalle forze di sicurezza durante le riprese), in modo ben consapevole della forza innovatrice del film  e usa il suo”cine-occhio” – volendo scomodare quanto fecero negli anni ’20 del secolo scorso le avanguardie – come modo “rivoluzionario” di reinterpretare la realtà che oggi vuol dire, soprattutto, la sua  “rappresentazione” mediatica..

In secondo luogo, sul piano della narrazione.

Noujaim ibrida in modo nuovo, e dialettico, documento e “finzione” e lo fa dall’interno, da documentarista e “storyteller” attenta e appassionata quale è, ed anche con uno sguardo “femminile”, più attento ai dettagli e alle sfumature, ai sentimenti e alle percezioni delle persone, e che pure sa manovrare fredda ironia e tagliente sarcasmo, specie quando descrive il ruolo giocato nelle vicende, nel segno s’intende di un “machismo” culturalmente ben radicato, dagli esponenti, di differente età e livello gerarchico, dalla classe militare (e ci viene da pensare allo sguardo ironico usato dalla Bigelow, donna e regista di un “film di  guerra” holliwoodiano in The Hurt Locker, tra l’altro insignito di diversi premi Oscar nel 2010). Il suo è uno sguardo selettivo, che isola narrativamente alcuni personaggi, ne amplia anche a dismisura il profilo, fa di essi i portavoce delle istanze collettive, e il veicolo della immedesimazione degli spettatori: così, oltre al già citato Ahmed, vediamo l’attore britannico di origine egiziana Khalid Abdalla, figlio di un esiliato politico e tornato anche lui a lottare in piazza Tahrir); Magdy Ashour, esponente “critico”dei “Fratelli musulmani” e che osa denunciare i rapporti poco trasparenti tra questi e i militari;  Ramy Essam, un giovane cantante che diventerà la voce musicale delle proteste ma finirà torturato dalle forze di polizia; ma anche giovani attiviste e giornaliste donne, dunque doppiamente coraggiose, come Aida El Kashef.

Ma The Square non è una inchiesta giornalistica, e sarebbe assurdo giudicarlo secondo i parametri della fedeltà e della precisione della ricostruzione storico-politica degli eventi. Peraltro, rende bene la complessità e le contraddizioni di una rivoluzione che in tre anni è stata già più volte tradita, e che pure non finisce, pur dopo così tante vittime. Così la regista è oggi di nuovo in piazza Tahrir, dove, sfidando il pugno di ferro dei militari (che nel frattempo hanno come si sa destituito il leader musulmano Morsi), e il proprio stesso disincanto tanti uomini e donne egiziani rischiano la vita per la libertà sapendo, come dicono nel film di “non aver bisogno di leaders, ma di una coscienza”.

 

TRAMA

Il film racconta la lotta del popolo egiziano per la conquista della libertà dal 2011, anno della fine della dittatura trentennale di Mubarak, fino al golpe militare avvenuto nell’estate del 2013 che ha rimosso dal suo incarico il presidente Morsi, leader della “Fratellanza Musulmana”.


di Sergio Di Giorgi
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