The Shrouds

La recensione di The Shrouds, di David Cronenberg, a cura di Marco Catenacci.

Quello che Karsh osserva della moglie defunta non è un corpo in decomposizione, ma l’immagine digitale di un corpo in decomposizione. Un’immagine fantasma, un incubo come gli spettri che turbano le sue notti, una visione talmente pervasiva che è impossibile lasciar andare. Il digitale, inizialmente palliativo per curare il dolore e colmare il vuoto, diventa allora strumento per il controllo totale (cos’è il sudario hi-tech inventato da Karsh se non la più invasiva delle telecamere di sorveglianza, capace di guardare nell’abisso – “How dark do you want to go?” – per scavalcare il taboo della visione della morte?).

È ovviamente lo sguardo il mezzo di controllo supremo della nostra epoca, il desiderio di vedere tutto, la possibilità di vedere troppo. La nuova carne, oggi, è un’immagine digitale: un corpo in decomposizione, un avatar, un alter ego, una proiezione mentale che finisce per sovrapporsi al reale. E ancora, fantasmi dal mondo della rete, profili digitali che sopravvivono al decadimento del corpo restando visibili (e quindi vivi: morire significa anche sottrarsi alla vista) in eterno, immagini – digitali e mentali – che ci illudono di poter resistere alla morte modellando nuove realtà.

In questo film terrificante e teorico, vertiginoso e autobiografico (la moglie dell’autore scomparsa nel 2017 a causa di un tumore; un alter ego, quello di Vincent Cassel, mai così simile al regista per fattezze e ossessioni) Cronenberg arriva al sentimento lavorando sulla superficie di immagini glaciali e mortifere per dare forma al cimitero digitale della nostra epoca; un mondo in cui la morte è in ogni dispositivo e l’eccitazione sessuale deriva dal brivido di architettare cospirazioni e complotti per mettere in ordine – controllare – il caos. 

Nessun altro avrebbe potuto girare un film come The Shrouds: l’ennesimo gigantesco testamento di un maestro che a 81 anni continua ad interrogarsi sulle immagini e a pensare un cinema capace di parlare la stessa lingua del contemporaneo. Un cinema presente che guarda al futuro, oltre la narrazione, oltre il visibile, oltre la morte.


di Marco Catenacci
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