The Search

A un regista nel pieno dell’eta adulta come Michel Hazanavicius (classe 1967) e a un giovane produttore figlio d’arte come Thomas Langmann non manca di certo il coraggio, che a volte, però, confina con la temerarietà. Perché, per voler produrre e dirigere nel 2014 una sorta di remake dell’omonimo film (“Odissea tragica” era il titolo italiano) di Fred Zinnemann (1948) trasportando le vicende – almeno quelle principali – dalla seconda guerra mondiale, appena conclusa, alla seconda guerra russo-cecena del 1999, temerari bisogna un po’ esserlo, specie pensando che appena 3 anni prima si erano vinti  ben 5 Oscar e incassato tanti denari al box office con l’elegante ed intrigante The Artist (a nostro avviso sopravvalutato, oltre che sospettato in patria di plagio). Nelle interviste il regista, parlando dell’originale americano,  conferma di aver voluto fare “un film a vocazione popolare, fatto per il grande pubblico, pur affrontando un soggetto difficile: nel suo caso dei campi di concentramento, nel mio della guerra in Cecenia”.

Purtroppo, al cinema come in tutte le imprese umane, le intenzioni vanno comparate agli esiti, e tanto le prime quanto i secondi di solito si intrecciano con i vissuti personali e con le esperienze reali di un luogo o di un tempo. Mostrare la guerra, o i lager, e il loro carico di violenza e dolore assoluti, specie se incarnati da bambini o ragazzini,  riesce poi di solito solo ai grandi artisti (pensiamo a Germania anno zero di Rossellini, che è sempre del 1948 come il film di Zinneman, austriaco di nascita, entrambi girati tra le vere macerie della guerra). La filmografia del regista francese, che viene da una famiglia ebraica di origine lituana, oltre al fardello forse sin troppo ingombrante di The artist, aveva sulle spalle due successi commerciali con le parodie francesi di James Bond e un episodio di una commedia un po’ “pecoreccia” come Les infidelés del 2012. Forse anche per questo  gli esiti di The Search versione Hazanavicius sono, come molto critica, anche francese, ha rilevato sin dall’inclusione nella competizione di Cannes 2014, per certi versi inquietanti, per altri imbarazzanti (dopo le critiche il regista e il produttore, prima dell’uscita in sala, hanno comunque tagliato circa venti minuti di film).

Inquietante, a nostro parere,  è, ad esempio,  proprio la “finzionalizzazione” della violenza che apre il film. Un lungo piano sequenza che mostra il  rastrellamento e il massacro di una famiglia cecena da parte di soldati russi  che si “mostrano” in tutta la loro crudeltà, facendosi riprendere da un obiettivo (alla mdp c’è lo stesso regista, per sua ammissione). Ma non è “documento” filmato anche se vuole sembrarlo (comprese le gocce di sangue che sporcano l’immagine), bensì la “messa in scena” di fatti reali (o comunque realistici), che viene poi duplicata  da un’altra prospettiva, quella di un bambino (uno dei protagonisti della vicenda) che spia dalla finestra di casa la morte dei suoi genitori.

L’effetto dissonante e imbarazzante (sempre nei risultati almeno) che il film poi provoca  nello spettatore deriva soprattutto dal duplice registro narrativo che il regista utilizza: il film “di guerra” dove si avvertono echi precisi di Full Metal Jacket (specie nel racconto dell’addestramento del giovane militare russo Kolia, Maxim Emalianov) e il “melò” (davvero poco credibile), che segna l’incontro e la relazione tra Carole (Bérénice Bejo, funzionaria dei diritti umani spedita sul campo dall’Unione Europea senza molto sostegno) e il piccolo Hadji.

Due registri che purtroppo non si incontrano quasi mai nelle oltre due ore del film. E non sarà un caso che  il cast “ceceno” (Hadji, ma anche la sorella Raissa che lo cerca dopo la sua fuga) di non professionisti funziona meglio delle star (oltre alla Bejo, moglie e musa del regista, Annette Bening, che interpreta Helen, la responsabile della Croce Rossa Internazionale nell’area).

Peraltro il film, girato tutto nell’assolata Georgia dove il regista ha dovuto combattere con l’eccesso di luce nel set) ha dei meriti al suo attivo. Penso proprio al lavoro fotografico fatto con Guillaume Schiffmann che riesce a diffondere una patina grigia e biancastra agli esterni come agli interni. Ma anche a certe inquadrature, come i campi lunghi delle colonne militari nel paesaggio polveroso e lunare, o sequenze ben riuscite come quelle degli episodi di bullismo da caserma o dei “giochi pericolosi”  nei campi di addestramento militare. Ma è l’insieme a non convincere (e comunque del conflitto russo-ceceno, alla fine del film, non sappiamo più di tanto).
Sicuramente però Hazanavicius e il suo produttore staranno pensando a un nuovo film. E dopo i trionfi di The Artist e il flop annunciato di questo film, sapranno, speriamo, stupirci ancora.

Trama

1999, seconda Guerra in Cecenia. Un’impressionante storia di conflitti raccontati attraverso quattro vite, che si incroceranno..
Dopo che i suoi genitori sono stati uccisi nel loro villaggio, un bambino fugge ed entra nella massa dei rifugiati. Incontra così Carole, responsabile della delegazione dell’Unione Europea e lentamente, con il suo aiuto, torna alla vita. Nel frattempo la sorella maggiore Raïssa lo cerca incessantemente tra i civili in fuga.
Poi c’è Kolia, 20 anni, nuova recluta dell’esercito russo. A poco a poco anche lui verrà sopraffatto dalla quotidianità della vita in tempo di guerra.


di Sergio Di Giorgi
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