The Post

Una “sottile linea rossa” attraversa la storia degli Usa a partire dal secondo conflitto mondiale. Questa linea non è altro che, per l’appunto, la guerra (con il suo carico atroce e insensato di lutti e di violenze). Ai continui interventi sui fronti esterni, di norma a “boots on the ground” (almeno sino all’assai recente utilizzo dei droni), si è sempre sovrapposto un fronte interno, ovvero la guerra alla libertà dei media   (la cui missione di informare l’opinione pubblica su segreti e malefatte del potere è, come si sa, garantita dal primo emendamento alla Costituzione americana). In questi decenni infatti, nonostante i numerosi tentativi del potere politico (ovvero presidenziale) per distruggerlo o oscurarlo, lo specchio della libera stampa ha provato in ogni modo a riflettere la realtà, anche la più nascosta, della guerra e dei suoi numerosi “effetti collaterali”. Ma altri e più potenti sono gli specchi, anzi gli schermi che, producendo o influenzando l’immaginario collettivo, hanno illuminato i conflitti tra potere e media: quello del cinema, certo, e più di recente anche quello delle serie tv che hanno finito per assumere in materia un ruolo parallelo ma non meno importante, più profetico che investigativo o storiografico.

Alla nutrita schiera di film che nel tempo hanno raccontato quei conflitti  – e a ricordarci come quel fronte interno sia tornato clamorosamente attuale  e virulento (dopo una sorta di armistizio durante i due mandati della presidenza Obama) con l’avvento alla Casa Bianca di Trump – si aggiunge ora l’ultima fatica di Steven Spielberg che rilegge il grande scandalo dei Pentagon Papers. Si tratta dello studio segreto, lungo oltre 7.000 pagine, commissionato dal Segretario alla Difesa Robert Mc Namara e che ripercorreva oltre venti anni, dal 1945 al 1967, di decisioni politico-militari nello scenario del sud-est asiatico assunte da quatto diversi Presidenti: il prologo, tra l’altro, del susseguente e più noto Watergate che costrinse Nixon alle dimissioni nell’agosto del 1974. In estrema sintesi, quei quattro presidenti avevano nascosto al loro popolo, e in primo luogo ai soldati e alle loro famiglie, una semplice ma terribile verità: la guerra del Vietnam (quasi 60.000 soldati Usa morti, un milione di vittime sul terreno) non poteva mai essere vinta…

Il celebre regista e sceneggiatore americano (classe ’46), sembra vivere in questo decennio una seconda giovinezza

Il celebre regista e sceneggiatore americano (classe ’46), sembra vivere in questo decennio una seconda giovinezza (è in uscita negli Usa il suo adattamento del romanzo distopico di Ernest Cline Ready Player Only, mentre dopo il quinto Indiana Jones Spielberg girerà il remake di West Side Story). Per The Post ha richiamato al suo fianco collaboratori storici e di gran talento, dal direttore della fotografia  Janusz Kaminski (che con lui ha condiviso gli Oscar per Schindler’s List e Salvate il soldato Ryan) al montatore Michael Kahn, dallo scenografo Rick Carter a John Williams per le musiche, mentre lo script del film veniva affidato alle mani esperte di Josh Singer (premio Oscar per la sceneggiatura de Il caso Spotlight, ma già anni prima sceneggiatore della serie tv The West Wing-Tutti gli uomini del presidente) ma anche di Liz Hannah (una giovane scrittrice che qua coproduce la sua prima sceneggiatura).

I due sceneggiatori privilegiano la prospettiva dello scontro di caratteri e ruoli sociali tra primattori e  comprimari e pertanto – pur rispondendo efficacemente ai requisiti di genere del thriller politico –  The Post intreccia, in  modo più o meno mirabile,  generi diversi: film biografico, drammatico, film storico. Se ne ricava uno spartito assai ricco di note stilistiche e narrative che se da un lato asseconda la versatilità cui un regista come Spielberg ci ha abituati nella sua incredibile filmografia, dall’altro trova piena risposta nella bravura esecutiva della coppia Meryl Strep-Tom Hanks,  per la  prima volta (e magnificamente) insieme,  a dar corpo ai veri personaggi di Katharine (Kay) Graham e  Ben Bradlee, rispettivamente editrice e direttore del Washington Post dell’epoca.

Solo la Streep, peraltro, risulta candidata agli Oscar 2018, e forse la ragione va ricercata nella maggiore difficoltà nell’impersonare una figura così sfaccettata – che oscilla di continuo tra fragilità e forza, insicurezza e determinazione – come la Graham. Una donna che, caso forse unico nell’America di inizio anni ’70, dopo il suicidio del marito si trovò catapultata quasi senza esperienza alla guida del Post (allora una testata di scarso rilievo nazionale). Circondata dallo scetticismo di un mondo di potere composto da soli uomini, la Graham seppe però gestire contemporaneamente la fase cruciale della quotazione in borsa della società e la vicenda dei Pentagon Papers. Grazie alla pronunzia della Corte Suprema (nella causa che opponeva in effetti il New York Times, il primo ad aver pubblicato i documenti,  e il governo federale) ne uscirà vittoriosa  a tutto campo (da allora il Post diventa una testata nazionale, e lancerà poco dopo, come è noto, l’inchiesta sul  Watergate). Pur dovendo confrontarsi con la performance da Oscar di Jason Robards in Tutti gli uomini del presidente di Pakula, era forse più semplice per Hanks rendere la caparbietà di Bradlee, senza però rinunciare a quella sua inconfondibile aria sorniona, sin dal bellissimo piano sequenza del primo incontro a tu per tu dei due protagonisti, a colazione in un elegante caffè.

Ma se l’ambivalenza del rapporto tra l’editrice e il direttore è il fulcro della scena, è la coralità dell’intero cast ad affermarsi via via:  ci limitiamo a ricordare qui l’ostinato capo redattore Ben Bagdikian che è (in una altrettanto indimenticabile performance) Bob Odenkirk, reso celebre dalle serie Breaking Bad e Better Call Saul, il Robert McNamara di Bruce Greenwood, e, tra i pochi altri ruoli femminili, Sarah Paulson che è la moglie di Bradlee. Tutti quanti aderiscono al ritmo preciso e serrato (ben sostentuto dal montaggio) degli eventi e dei dialoghi (questi ultimi degni dei migliori precedenti del genere “newspapers movie” come His Girl Friday di Howard Hawks o il recente Spotlight di Tom McCarthy). Quanto alla regia in senso stretto, Spielberg riesce da par suo ad assicurare al racconto – cui imprime spesso svolte e brusche accelerazioni – velocità e duttilità (veloce è stato del resto anche il tempo delle riprese, ‘appena’ 11 settimane):  movimenti di camera a spalla e piani ravvicinati si alternano così a più distese inquadrature in campo  medio  e lungo, mentre umorismo e fisicità da action movie punteggiano e alleviano l’incalzante drammaticità delle vicende.

The Post resta fondamentalmente un film d’interni, a tratti persino claustrofobico, tutto giocato nel contrasto tra la solitudine degli imponenti e sontuosi arredi in cui si muove, tra casa e lavoro, Kay Graham e il  caotico e affollato disordine della newsroom anni ’70 dove si aggira, a passi felpati o ringhiando, il direttore Bradlee. Oltre alla grande attenzione ai costumi (di Ann Roth), è da  segnalare la maniacale precisione con cui sono stati ricostruiti tutti gli interni d’epoca come pure macchinari e suppellettili vintage (la produzione ha financo rintracciato la Xerox 914 originale che vediamo  al lavoro nel film a fotocopiare le migliaia di pagine dei Papers). Infine, riguardo ai codici sonori, sono numerosi e davvero sentimentali gli omaggi che Spielberg rende ai rumori delle vecchie icone – dalle macchine per scrivere alle rotative – di un giornalismo che la tecnologia ha oggi sicuramente reso più “silenzioso” (ma per fortuna non ha silenziato).

Se negli interni la macchina filmica gira quasi alla perfezione, meno brillante è a nostro avviso il risultato quando la camera esce in esterni, come ad esempio nelle scene delle proteste sociali che fanno da sfondo al passaggio dei protagonisti verso le aule di tribunale e che restano un po’ macchiettistiche. Ed è forse proprio lo spessore complessivo da film storico, capace di descrivere compiutamente un’epoca sociale, a far un po’ difetto rispetto agli altri registri di genere modulati da Spielberg. Il film resta comunque un’opera dallo “stile classico e rigoroso” (come recita la motivazione del Sindacato Critici che lo ha riconosciuto “Film della critica’), e sicuramente godibile, soprattutto in versione originale.

Nel ricostruire uno dei momenti più duri ed emblematici non solo del rapporto controverso tra potere e giornalismo negli Usa,  ma anche del conflitto interno al mondo stesso dei media e di chi li finanzia, The Post getta al tempo stesso luce sui più recenti capitoli di questo rapporto, negli Usa guidati da un Presidente ossessionato dalle fastidiose verità dei media non allineati.

Dal Vietnam di ieri alle interminabili Guantanamo di oggi è grazie a giornalisti ed editori che rischiano in prima persona (professionalmente quando non fisicamente) che l’opinione pubblica – in Usa come in tutti i paesi del mondo – può sperare di sapere quanto le viene, quasi sempre colpevolmente, impedito di conoscere. Ma anche il cinema può venire in soccorso, e allora, ad esempio, potremmo rivedere The Unknown Known (2013) l’istruttivo documento-intervista di Errol Morris all’ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld (che proprio con Nixon aveva iniziato la sua lunga carriera politica).

Trama

1971: Katharine Graham (Streep) è la prima donna alla guida del The Washington Post in una società dove il potere è di norma maschile, Ben Bradlee (Hanks) è lo scostante e testardo direttore del suo giornale. Nonostante Katharine e Ben siano molto diversi, l’indagine che intraprendono e il loro coraggio provocheranno la prima grande scossa nella storia dell’informazione con una fuga di notizie senza precedenti, svelando al mondo intero la massiccia copertura di segreti governativi riguardanti la Guerra in Vietnam durata per decenni. La lotta contro le istituzioni per garantire la libertà di informazione e di stampa è il cuore del film, dove la scelta morale, l’etica professionale e il rischio di perdere tutto si alternano in un potente thriller politico.


di Sergio Di Giorgi
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