The New World
Visionario, solenne, lirico, avvolgente, pieno di immagini belle e inusuali, The New World, ultimo film diTerrence Malick (regista misterioso e meritatamente di culto), racconta la storia vera di un’occasione mancata, o meglio, il sogno di un progetto impossibile: l’incontro avvenuto in America, all’inizio del Seicento, tra i colonizzatori inglesi (sbarcati sulla costa selvaggia della Virginia) e gli indigeni Powhatan che abitavano da sempre quel territorio, ovvero l’incontro tra il nuovo mondo che avanza (e tutto travolge) e un passato che porta già in sé il destino segnato. Si parla, naturalmente, anche del paradiso perduto, rappresentato però da Malick come un’utopia, come un sogno trasfigurato e abitato da fantasmi (gli indigeni che nelle prime scene del film appaiono e scompaiono tra il fogliame o che spiano interdetti i nuovi arrivati, le loro costruzioni, le loro strane abitudini), mentre il futuro (che è il nostro) ha già visibili le tracce della propria condanna (la lotta per il potere ma anche la fame e il freddo, la fatica del lavoro, la violenza e lo sfruttamento, l’infelicità e l’alienazione).
A rappresentare metaforicamente le due realtà ci sono da una parte la principessa Pocahontas, innocente e vulnerabile, e dall’altra l’avventuriero inglese, ribelle e un po’ ribaldo, John Smith. Tra i due scoppia naturalmente l’amore, e sarà proprio per amore che finiranno col tradire le loro rispettive comunità e così perdersi: lei ripudiata dal suo popolo, convertita al cristianesimo, verrà accolta con tutti gli onori in Inghilterra, lui spinto a mettersi alla ricerca di nuove terre e avventure. Insomma più che un paradiso perduto (l’amore eterno e la convivenza pacifica), è un paradiso impossibile, e più che la nascita dell’America Malick racconta la sua conquista e il suo tradimento. A metà strada tra Whitman e Milton, le teorie evoluzioniste di Darwin e certe tele di Gaugin (i costumi di Pocahontas), The New World è un film assolutamente coerente con l’estetica, la filosofia e, purtroppo, anche un certo compiacimento estetizzante di Malick; la differenza è che mentre nel suo straordinario film precedente, La sottile linea rossa, temi così alti venivano declinati sullo sfondo tragico della guerra e della morte, qui ci si dilunga troppo con amori infelici e caducità dei sentimenti. Da segnalare la smagliante fotografia di Emmanuel Lubezky (ottenuta solo con luci naturali) e la musica di James Corner, che spesso (e bene) lascia spazio a Wagner e Mozart.
di Piero Spila