The Lady
Aug San Suu Kyi è diventata negli anni il simbolo della lotta non violenta e della resistenza al regime militare birmano. Lei, figlia del compianto leader indipendentista Aung San assassinato dagli avversari filogiapponesi; lei, il cui nome è un tabù impronunciabile in un Paese ancora retto dal potere militarizzato, dove il raduno di cinque persone è già ritenuto fuori legge e le armi da fuoco sopprimono senza scrupoli né reticenze. Solo lei, “The Lady”, la “Signora” per antonomasia come viene chiamata nella sua Birmania, continua a lottare pacificamente per il sogno democratico, per il dialogo tra le 120 etnie che popolano quell’area dell’Indocina. Nonostante gli anni trascorsi in Inghilterra dove sposa il professore universitario Michael Aris dal quale ha due figli, Suu resta legata alle vicende del suo Paese. Qui torna nel 1988 per assistere la madre in punto di morte finché, coinvolta da vicino dagli scontri politici di quell’anno, decide di fondare la Lega Nazionale per la Democrazia. Così dall’infanzia alla rivolta dei monaci buddisti del 2007 mostrata con filmati reali, passando per l’isolamento coatto e il premio Nobel del 1991, questo film ripercorre la vita della “Signora” tra sfera pubblica e, soprattutto, privata.
Ad Aung San Suu Kyi il regista Luc Besson dedica dunque la sua ultima fatica cinematografica. Un’opera che mette al centro questa figura chiave della storia contemporanea mentre la storia per l’appunto continua a farsi. Non già a scriversi. Su di lei infatti non ci sono libri, le testimonianze sono confuse, le informazioni carenti e discordanti. L’intimidazione da parte del governo militare fa il suo gioco così che ricostruire la vicenda della donna, i cui arresti domiciliari sono terminati solo nel 2010 dopo ben 12 anni, si rivela particolarmente complesso. Col contributo di giornalisti (anonimi per motivi di sicurezza) che hanno fornito materiale documentario, con i rapporti di Amnesty International e Human Rights Watch, lo sguardo del cineasta francese e il lavoro certosino della sceneggiatrice Rebecca Frayn hanno condensato in 127 minuti di pellicola un ritratto dalla straordinaria levatura morale e politica.
Besson sembra però cambiare registro rispetto alle opere precedenti. Questa volta opta per una biografia scevra da esaltazioni agiografiche, riportando puntualmente la potenza della dimensione umana nella sua accezione più nobile. E lo fa con uno stile romanzato, a tratti epico, né documentario né introspettivo, mantenendosi spesso a distanza di sicurezza dal suo personaggio: nessun virtuosismo formale, solo immagini ben composte che non osano avvicinarsi troppo alla donna per meglio illustrarne narrativamente le azioni. Significativamente, in apertura, la presentazione di Suu avviene dal punto di vista dei due uomini più importanti della sua vita, il padre e il marito. A quest’ultimo il regista dà grande rilevanza tanto nelle modalità del racconto quanto nel sistema dei personaggi, sì da ridistribuire tra i due coniugi quel protagonismo che il titolo sembra conferire solo alla donna. Da qui scaturisce la centralità al ritratto di figlia devota, moglie e madre affettuosa, all’affezione domestica che stempera il valore politico del soggetto scivolando su toni da melodramma e fa di The Lady sostanzialmente una storia d’amore e, in seconda analisi, di democrazia.
Poche, nell’economia generale del racconto, le ricostruzioni della difficile situazione birmana: tra queste, le immagini iniziali della repressione studentesca, con cui comincia il coinvolgimento politico attivo di lei, lasciano sperare in un seguito filmico dal grande valore di testimonianza storica che stenta ad arrivare. Allo stesso modo, il contesto si sposta tra Rangoon e Oxford semplificandosi in visibili cambi cromatici che lo relegano a funzione di sfondo, mai di altro personaggio come richiederebbe invece un taglio più impegnato. I luoghi e gli spazi accolgono le azioni e le risoluzioni di Aung San Suu Kyi, una Michelle Yeoh, incredibilmente somigliante, che ha saputo restituire nei modi e nel portamento tutta la composta passionalità dell’originale. Anche David Thewlis, nel curioso doppio ruolo di Michael Aris e di suo fratello gemello Anthony, ha saputo fornire il suo significativo contributo professionale. Le capacità di tutti gli attori, protagonisti e non, danno un notevole contributo al racconto di una personalità straordinaria in un film che senza osare troppo ne mostra con giustezza gli accadimenti. Resta la preponderanza accordata alla sfera privata, alle lunghe attese dell’isolamento, alla preoccupazione per i familiari e per il futuro del Paese trattati non senza punte d’autentica poesia. Più debole l’aspetto politico, l’apporto dell’arte cinematografica a un soggetto che merita di configurarsi prima di tutto come progetto filmico, che vada oltre la mera divulgazione, che non si adagi sulla capacità d’attrazione offerta dalla verità storica.
TRAMA
Rangoon, 1947. È l’ultima volta che la piccola Aung San Suu Kyi vede suo padre, il generale Aung San, leader dell’indipendenza birmana, prima che venga ucciso dagli avversari politici. A distanza di quasi quarant’anni, quella bambina diventata ormai moglie di un professore di Oxford e madre di due ragazzi torna nel Paese natio per assistere la madre morente. Inizierà da quel momento una fase nuova nella sua vita all’insegna dell’attivismo non violento e della lotta per i diritti umani. Nonostante gli sforzi abbiano ricevuto il riconoscimento del Nobel per la pace nel 1991, la storia contemporanea ci mostra che la conquista della democrazia è ancora un miraggio nella Birmania militarizzata.
di Redazione