The Kitchen
La recensione di The Kitchen, di Daniel Kaluuya e Kibwe Tavares, a cura di Guido Reverdito.

Nella Londra futuribile del 2004 la sperequazione sociale e la crisi abitativa hanno raggiunto livelli tali che le grandi masse metropolitane vivono segregate in sorte di maxi ghetti che somigliano a favelas post-atomiche in cui anche l’acqua corrente è un lusso e per sopravvivere sono in molti a dover assaltare i mezzi che riforniscono di vettovaglie i supermercati della classe dominante.
Il più grande e disagiato di questi ghetti è quello che dà il nome al titolo del film. Immenso come un alveare stipato di esseri umani che vivono in condizioni ai limiti della ferinità, il Governo ci ha messo gli occhi sopra in quanto sarebbe una ghiotta occasione per radere tutto al suolo e trasformare l’area in un quartiere di abitazioni di lusso. Per realizzare il progetto, non passa infatti giorno senza che la Polizia irrompa in tenuta da sommossa per vincere la resistenza tenace degli abitanti deportandoli in massa non si sa bene dove.
A The Kitchen vive anche Izi, il protagonista del film: in attesa che il Governo gli assegni un monolocale in un’area agiata (grazie al fatto che lavora comunque per lo Stato in un’azienda molto new age dove i defunti vengono cremati e convertiti in concime per piante), da una parte assiste agghiacciato ai rastrellamenti della Polizia e dall’altra inizia un percorso a metà tra la scoperta reciproca e il mentoring parentale con un orfano conosciuto sul posto di lavoro per via della crematura della madre. Un orfano che alla fine rappresenterà la sola vera sorpresa di uno script privo di eccessivi scossoni.
Selezionato al Sundance’s Screenwriting and Directing Lab, poi presentato ufficialmente al BFI londinese con uscita contemporanea nei cinema della capitale inglese, The Kitcken approda da noi solo su Netflix senza passare per le sale. Prodotto molto ambizioso carico di promesse e stuzzicanti premesse teoriche, questo thriller distopico è il film che vede l’esordio alla regia del duo costituito da Daniel Kaluuya e Kibwe Tavares.
E se il primo è ovviamente noto a tutti in qualità di attore (con alle spalle ruoli chiave in film come Nope e Scappa – Get Out, oltre ovviamente all’Oscar vinto a soli 32 anni per Judah and the Black Messiah), il secondo è invece un architetto londinese fondatore di Factory Fifteen, start-up che utilizza l’animazione e le nuove tecnologie per comprendere e spiegare l’ambiente antropico.
Il loro è un film molto ambizioso. E a confermarlo sono non solo la presenza di Michael Fassbender in qualità di co-produttore, ma anche il fatto che parte del budget sia stato impegnato nella costruzione di set autentici per evitare il ricorso corrivo all’uso del CGI. Ma, come spesso capita, l’ambizione a volte non basta a trasformare in successo un progetto. Cosa che in The Kitchen purtroppo accade puntualmente. Perché il film è di fatto una sorta di bignami di lusso di tipi e topoi del genere distopico, senza riuscire a proporre percorsi innovativi anche per colpa di una sceneggiatura statica più del dovuto che imprigiona in secche pensose lo sviluppo dell’azione senza quasi mai proporre sussulti che ravvivino il torpore in cui scena dopo scena perde di credibilità la dimensione da thriller futuristico a tinte grevi che l’intera operazione avrebbe forse aspirato ad avere.

di Guido Reverdito