The Holdovers – Lezioni di vita
La recensione di The Holdovers - Lezioni di vita, di Alexander Payne, a cura di Joana Fresu de Azevedo.
The Holdovers – Lezioni di vita è il classico film che non ti aspetti dal cinema moderno. Non solo per il fatto che il regista, Alexander Payne decide di girare in pellicola in 35mm e 4:3, ma anche per scelta di ambientare questa prima sceneggiatura per il cinema di David Hemingson – trent’anni di carriera come sceneggiatore e produttore di serie tv e che di questo lavoro è anche autore del soggetto e produttore – nell’immutabile New England del 1970. Anno lontano, ma fondante per la storia americana di oggi. Gli anni del conservatorismo di Nixon; alba delle contestazioni studentesche e di sfide alla conformazione della borghesia americana. Gli anni in cui la guerra del Vietnam stava facendo strage dei giovani americani.
Solo in apparenza tutto questo sembra non scalfire la granitica rigidità della Barton Academy. Collegio per rampolli di famiglie di vecchi e nuovi ricchi, l’istituto si trova nella difficile situazione di dover scegliere tra il rispetto dei rigidi metodi d’insegnamento e valori che l’hanno guidato fino a quel momento e la decisione di agire in modo più empatico per il benessere dei propri studenti. In questo contesto, al professore di lettere classiche Paul Hunham – odiato dagli studenti e non stimato dal corpo docente – viene affidato il compito di supervisionare cinque studenti che rimarranno presso il collegio durante le vacanze di Natale. Una serie di eventi farà sì, in realtà, che resti solo l’incostante Angus Tully, abbandonato all’ultimo per la volontà della madre di vivere in solitaria la propria luna di miele. Con loro resterà solo la cuoca Mary Lamb, donna devastata dalla recente morte dell’unico figlio, arruolatosi in Vietnam dopo essersi brillantemente diplomato proprio alla Barton e che aveva scelto l’esercito per poter avere la possibilità di proseguire gli studi al college.
Il professor Hunham, Angus e Mary sono gli scarti – The Holdovers, appunto – di una società che non sa che farsene delle loro imperfezioni, della loro incapacità di adeguarsi ai cambiamenti in corso, del loro non volersi conformare. In un susseguirsi di eccentricità palesate, di espressioni di dilagante depressione che attanaglia tutti i protagonisti e della loro consapevolezza di essere stati abbandonati, Alexander Payne sfida il pubblico. Che conserva il ricordo di storie di rivalsa come quella del professor Keating e dei suoi giovani Poeti estinti in L’attimo fuggente o dell’illuminata modernità del professor Hundert e della spietatezza della futura classe politica raccontata in Il club degli imperatori. Payne si affida alle stesse ambientazioni iniziali, agli immensi corridoi dei prestigiosi collegi americani per portare all’estremo della solitudine i suoi protagonisti. Abbandonandoli al destino di dover fare i conti con il proprio ingombrante passato, con l’insostenibilità emotiva del loro presente e con la impossibilità di prevedere il proprio futuro. Ma lasciando che siano loro a capire come afferrarlo.
Alexander Payne usa il freddo come costante narrativa. La neve che ricopre tutto, rendendo indistinguibile ogni barlume di vita esterna. I riscaldamenti vengono spenti in tutta la scuola, costringendo i suoi abitanti a auto-ricoverarsi in infermeria, quasi una conferma della loro instabilità fisica e emotiva, o a indossare informi vestaglie viola, che non fanno che accentuare la condizione di lutto che permea la storia. La spietatezza della ripresa su pellicola, che costringe all’uso di colori freddi e all’assenza dei picchi di nitidezza di una digitalizzazione che qui stonerebbe con l’opacità delle vite dei protagonisti.
Indubbio che parte della forza di The Holdovers – Lezioni di vita stia nelle eccelse interpretazioni dei suoi protagonisti. Dopo avergli regalato una delle sue migliori prestazioni in Sideways – In viaggio con Jack, Alexander Payne offre a Paul Giamatti un ruolo complesso, lontano dall’eroismo che sta imperversando a Hollywood. Ricco di imperfezioni fisiche e caratteriali, quello del professor Hunham è un personaggio scomodo, scontroso, volutamente antipatico. Perché è nel sapersi odiato da tutti che può rifugiarsi per non andare avanti e rimanere nel consolatorio immobilismo di cui ha permeato tutta la sua esistenza. Non riusciamo a pensare ad attrice migliore di Da’Vine Joy Randolph per il ruolo di Mary. Con la sua capacità di portare sullo schermo i suoi strazianti sorrisi di dolore e una presenza scenica che la fa essere perfetta in ogni momento. Non a caso, i due attori hanno già ottenuto importanti riconoscimenti per questi loro ruoli al Golden Globe (Miglior attore in un film commedia o musicale e Miglior attrice non protagonista) e ai Critics’ Choice Award (Miglior attore e Miglior attrice non protagonista)
Ma non è da sottovalutare nemmeno il contributo dell’esordiente Dominic Sessa, a cui la critica americana ha giustamente conferito il premio come Miglior giovane interprete. Il suo Angus è volubile, incostante, scontroso e maleducato, ma l’attore riesce anche a conferirgli quel velo di incertezza e fragilità, grazie ad una mimica facciale e ad una espressione corporea sempre credibili. Che lo portano nella non facile situazione di saper gestire al meglio il suo doversi confrontare praticamente in ogni scena con la dirompente bravura di Paul Gimatti.
The Holdovers – Lezioni di vita è uno di quei film da vedere per recuperare ciò che di classico il cinema può ancora darci. E per scoprire la modernità ancora inesplorata delle storie del nostro passato.
di Joana Fresu de Azevedo