The Good Shepherd – L’ombra del potere

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thegoodshepherd-ombradelpotereEsistono due diversi modi di lavorare nell’ambito del genere Spy Story: uno di carattere più commerciale, vicino all’action movie, in base al quale il perno del racconto è rintracciabile nella ricostruzione di eventi e azioni che portano il discorso contenutistico nell’ambito di strutturazione visivo/narrativa edificata su micro-episodi che parlano della sostanza concreta del lavoro di spionaggio. Un altro che dirotta il pensiero dello spettatore su altre, ben più pesanti, questioni: il tema dell’identità, la sofferenza interiore della spia, il conflitto tra vita individuale e ragion di Stato, l’intreccio fortissimo e inestricabile tra bene e male, l’impossibilità di dividere il vero dal falso. A questo secondo gruppo appartengono film straordinari come Storie di Spie di Eric RochantLa conversazione di Francis Ford CoppolaHomicide di David MametMunich di Steven Spielberg.
Anche The Good Shepherd-L’ombra del potere, opera seconda, dietro la macchina da presa, diRobert De Niro, appartiene a pieno titolo alla seconda categoria.
Il film, che racconta l’evoluzione della carriera di un alto funzionario della CIA, percorre sentieri anticonvenzionali sia dal punto di vista dei significati veicolati sia da quello più strettamente formale. Il terreno sul quale fa presa il lungometraggio di De Niro è quello preparato da grande sceneggiatore Eric Roth (già autore dello script di Munich e collaboratore di Michael Mann). Roth è un abile e intelligente scrittore che ha saputo entrare nel genere Spy Story con la giusta e doverosa profondità, utilizzando la griglia di un genere per raccontarci altro.

Il tono che caratterizza The Good Shepherd è pacato e dilatato. La descrizione delle azioni degli agenti della CIA è ridotta al minimo, essenziale. La struttura narrativa è certamente monocorde ma proprio questa sua presunta e algida piattezza permette al regista De Niro di evocare con precisione la questione del conflitto interiore che vive ogni individuo diviso tra i sentimenti personali e l’attaccamento alla patria, la difesa del proprio popolo e la messa in pratica di comportamenti illegali e riprovevoli.
Il protagonista è un uomo incapace di esprimere sentimenti, un individuo che ha imparato a mascherare ogni suo impulso emotivo in una patina di freddezza che gli impedisce di vivere pienamente affetti intimi. Robert De Niro grazie a una regia di grande equilibrio e rara compostezza riesce a delineare un personaggio che oltrepassa il genere per collocarsi in una dimensione introspettiva e filosofica. Attraverso una raffinata operazione di sottrazione, De Niro ha portato i suoi interpreti ad entrare in sintonia con il ritmo del racconto. Anche il solitamente inespressivo Matt Damon ha compreso pienamente il volere del regista ed ha sfornato una delle poche significative interpretazioni della sua carriera.
Alla fine della visione di The Good Shepherd, la sensazione più forte che si avverte riguarda l’approccio metacinematografico del duo Roth-De Niro approccio che ha consentito ai due autori di evitare ogni possibile stereotipo e di compiere una riflessione per nulla convenzionale sul ruolo degli individui in tipo di società che antepone un presunto bene collettivo alla realizzazione concreta della felicità soggettiva. The Good Shepherd però non da una risposte precise, Eric Roth e Robert De Niro non prendono posizione filosofico/moralistica. Si limitano ad analizzare l’angoscia repressa di chi è costretto a vivere doppie e triple vite, senza avere la certezza assoluta di essere nel giusto.


di Maurizio G. De Bonis
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