The German Doctor. Wakolda
Al suo terzo lungometraggio, Lucia Puenzo, classe 1976, figlia d’arte (il padre è il regista Luis), si è trovata a disporre di mezzi ben più ampi (il film è una coproduzione tra l’Argentina e 4 paesi europei) rispetto alle prime due opere low budget, tra le quali il vittorioso esordio alla Semaine di Cannes nel 2007 con XXY, dove trattava con piglio asciutto il tema scabroso dell’ermafroditismo. La regista argentina, che è anche autrice di romanzi tradotti in varie lingue, adatta ancora una volta per lo schermo (come già per la sua opera seconda, inedita in Italia, El nino pez, 2009) il suo romanzo “Wakolda” (da poco pubblicato in Italia da Guanda). Selezionato per “Un certain regard” a Cannes 2013, poi candidato argentino agli Oscar 2014, il film, dopo il rodaggio in Sud America, inizia ora il suo tour in America e in Europa con il titolo internazionale The German Doctor.
Il medico tedesco del titolo altri non è che il medico e criminale nazista Joseph Mengele. Il quale, dopo gli studi di “morfologia razziale” e il lavoro presso l’”Istituto per la biologia ereditaria e l’igiene razziale” di Monaco, alla fine degli anni ’30 salta sul trionfante carro del nazismo, diventa capitano delle SS, per poi diventare l’ “angelo della morte” nei lager più tristemente famosi, dove compie orribili sperimentazioni su centinaia di migliaia di detenuti ebrei e zingari, specie se giovani (circa tremila bambini e adolescenti risultano da lui torturati sino alla morte), con una particolare “specializzazione” sui gemelli e sulle persone affette da nanismo. Dopo la disfatta di Hitler, troverà asilo in Sud America, via Alto Adige, al pari di tanti altri gerarchi del regime (come Adolf Eichmann, catturato a Buenos Aires nel 1960 dai servizi segreti israeliani del Mossad).
Ed è proprio nell’Argentina del 1960, poco tempo prima della cattura di Eichmann, che si svolgono le vicende del film. Siamo però in Patagonia, dove, sullo sfondo di una natura maestosa, a tratti idilliaca, di montagne innevate e laghi scintillanti, la regista intreccia piccole ma terribili storie private con le tragedie della Storia, e del nazismo in particolare, ma da una straniante prospettiva latino-americana. Il film evoca infatti, sia pure in modo sfumato, le complicità del governo del suo paese nell’accogliere e proteggere i criminali tedeschi, ma anche le responsabilità delle comunità locali, affollate da molti espatriati dalla Germania che erano per lo più ancora devoti a Hitler (al punto da alimentare le leggende del Fuhrer nascosto in un bunker proprio in Patagonia…).
Ma la regista sceglie, sin dalle prime battute, di lasciare sullo sfondo il quadro e di chiamare lo spettatore a ricostruire il puzzle. Vediamo dei bambini e degli adolescenti di ambo i sessi giocare felici all’aria aperta, osservati da un uomo maturo, distinto e misterioso, che subito dopo si aggregherà ai genitori dei ragazzi – il padre di origine italiana, la madre di origine tedesca – nella lunga traversata in auto del deserto della Patagonia. La famiglia sta per trasferirsi nell’estremo sud, nella cittadina di Bariloche, per riattivare una guest-house in passato gestita dai genitori della madre. Sin dal viaggio nel deserto vediamo crescere la complicità (linguistica e culturale) tra il medico e la donna (e, per contrasto, la diffidenza, forse anche la gelosia, del marito), ma soprattutto l’attrazione seduttiva esercitata dall’uomo (ma prontamente ricambiata) sulla figlia Lilith, il cui esile corpo la fa sembrare ancora una bambina a dispetto dei suoi 12 anni. Intesa che si svilupperà nella cittadina: il medico diventa una sorta di mentore dell’adolescente, che frequenta malvolentieri la locale scuola (di lingua tedesca), dove il suo fisico minuto è oggetto di continuo scherno.
Per buona parte del film, la Puenzo conduce il gioco in maniera assai efficace, anche stilisticamente, tra i campi lunghissimi del paesaggio e il pedinamento con inquadrature molto strette sul protagonista e su Lilith, e guida noi spettatori, in atmosfere da raffinato thriller psicologico, a scoprire dettagli e indizi via via più evidenti, tutti però nel segno dell’ambiguità delle relazioni personali e dell’ipocrisia di quelle sociali. Gli appunti e gli inquietanti disegni e schizzi anatomici che il medico realizza, ma anche la competenza e affidabilità che egli sembra incarnare, il laboratorio di analisi messo a disposizione dalla comunità ma anche la sua estrema reticenza e diffidenza, l’aura di seduzione e fiducia che egli trasmette (al punto da farsi accogliere come ospite nell’albergo ancora non aperto), ma anche i suoi guanti neri, i freddi occhi azzurri e la sua scarsa comunicativa, gli incontri con strani emissari, il denaro, l’ancora più strano aiuto, anche finanziario, che a un certo punto offre al lavoro artigianale (di costruttore di bambole) del padre di Lilith, ecc. Tutto questo prelude certo sul piano narrativo a quell’assenso strappato alla madre (che intanto è incinta di due gemelli), ma all’insaputa del marito, al “trattamento medico” al quale sottoporre Lilith per farla “crescere”. A essere rivelata è in primo luogo l’identità simbolica (chiaramente “malefica”) del protagonista, ma al tempo stesso la subdola e ambivalente fascinazione che si serve di gesti e simboli esteriori, ma che sembra modellare anche i tratti fisiognomici. In anticipo sui tempi, la figura di Mengele (come quella del “contabile” Eichmann), racchiude in sé non solo la follia sadica e sanguinaria ma anche le pulsioni narcisistiche, le istanze fredde, burocratiche, rispettose delle forme e delle procedure, che caratterizza quella “razza” dei “nuovi tiranni” (che oggi abitano soprattutto i territori dell’alta finanza e della politica) efficacemente descritti dallo scrittore e saggista John Berger, (J. Berger, “Contro i nuovi tiranni”, Neri Pozza, 2013). Al riguardo, è degna di nota la prova attoriale di Alex Brendemühl, ricca di sfumature e mezzi toni (l’attore ha per inciso una somiglianza impressionante con il vero Mengele), ben affiancata dalla spontaneità recitativa della giovane Florencia Bado, che è Lilith.
Però, via via che le tessere del mosaico rivelano l’immagine nascosta e l’identità anche storica di Mengele emerge, il film perde, forse inevitabilmente, un po’ del suo smalto e la sapiente ambiguità lascia posto a reazioni decisamente più scontate, specie di fronte gli esiti infelici del “trattamento” di cui è vittima Lilith. Anche il richiamo a una delle vere ossessioni di Mengele, quella per le bambole (che egli riproduceva con incredibili fattezze umane) – nella finzione trasposta nel lavoro del padre di Lilith, Enzo (Diego Peretti) – risulta
ridondante sullo schermo e nel racconto. Anche se non mancano alcune sequenze intriganti, come l’intrusione nella ricca casa del vicino, la nascita prematura dei gemelli, ecc., quando entra in scena Nora Eldoc (Elena Roger), archivista della scuola che si scoprirà essere anche una fotografa e, soprattutto, un agente del Mossad, la trama si fa a tratti prevedibile, sino alla fuga di Mengele, che resterà fuggiasco in America Latina, ed esercitando ancora la “professione” per quasi venti anni, sino alla sua morte (1979) in Brasile.
A leggere in filigrana, ancora una volta come in XXY, sia pure da una prospettiva storico-politica, la Puenzo tratta il tema della manipolazione genetica, e della libertà personale anche rispetto alle responsabilità della scienza e della società tutta. In una intervista, la regista ha anche richiamato la vicenda delle terapie ormonali cui per lungo tempo e sin da ragazzo è stato sottoposto il campione Lionel Messi per diventare più alto. Film-metafora che parla insomma anche dell’oggi, The German Doctor conferma di certo il fluido talento registico e narrativo della Puenzo. Solo, a voler essere maliziosi, la regista ha forse mirato a portare un altro premio Oscar in famiglia. Perdendo per strada “il segreto dei suoi occhi” (quelli azzurri di Brendemühl/Mengele) e non osando esplorare sino in fondo un’altra triste pagina della recente storia argentina, anch’essa ben espunta dalla “historia official”.
TRAMA
Patagonia, 1960. Un medico tedesco incontra una famiglia argentina e la segue nel loro lungo viaggio attraverso il deserto verso Bariloche. Questa famiglia modello risveglia la sua ossessione per la purezza e la perfezione. La sua attenzione si focalizza in particolare su una delle figlie, Lilith, una ragazzina di 12 anni molto minuta per la sua età. Il medico tedesco viene accolto con entusiasmo come primo gradito ospite e affitta una stanza nella loro casa-vacanza. Giorno dopo giorno, tutti vengono sedotti dal suo carisma…
di Sergio Di Giorgi