The Final Cut
La fascinazione per lo sguardo umano, l’occhio imperscrutabile sulla realtà, rientra tra le ossessioni più studiate e meno risolte dal cinema, sia nel prolisso discorso critico/storiografico, che in quello puramente produttivo e autoriale.
Il piano visivo orizzontale (oggetto-soggetto-memoria) regolato in entrambe le direzioni ha prodotto a volte film interessanti, sebbene rappresentativi di un certo genere cinematografico. Basti citareStrange Days, Se mi lasci ti cancello, Chyper, Minority Report e molto altro.
Anche The final cut del giovanissimo giordano Omar Naim, rientra in questo filone. In questo caso lo sguardo è memoria e la memoria, montaggio. In un futuro/presente l’umanità sogna il chip della Zoe, una sorta di registratore di sensazioni visive/sonore, collocato nel cervello del bambino appena nato, registrandone l’intera vita. Alla sua morte (naturale o violenta), entra in gioco il montatore, che prende con se il chip con la registrazione e lo trasforma in un film commemorativo.
Alan Ackman (un sorprendente Robin Williams) è uno di questi montatori, schivo, introverso, pieno di insicurezze. Nasconde al suo interno un passato adolescenziale pieno di dolore, che si ripercuote in maniera indelebile sul suo operato. Ed è proprio verso questo aspetto che il regista indirizza maggiormente la sua attenzione. Anche perché, sgombrando da subito ogni dubbio, The final cut, non è certo un gran film di genere. Ma, pur avendo un difetto di fondo (la sceneggiatura sembra scivolare via in maniera piatta e scontata), si pregia di alcuni punti interessanti. Primo fra tutti l’attenzione rivolta al personaggio prima ancora che all’intreccio e alla scoperta dei cattivi. Secondo l’atemporalità dello spazio, la neutralità delle forme e dei luoghi, che collocano la vicenda in un nulla, una zona ancora da scoprire perché completamente fasulla. Come falsi sono i rememory commemorativi che i montatori preparano per i loro clienti, e che sono un palese richiamo alla labilità delle immagini, all’astuzia del montaggio, alla cattiveria dell’animo umano. Così tutto diventa cinema, e il cinema il mostro e l’incubo dell’umanità che non può più ricordare.
La camera morturaria diventa una sala cinematografica dove proiettare l’essenza sbagliata di un gesto, fuggendo dalla verità, lavorando con cesellature ad incastro. Ma, cosa succede se un montatore anziché formulare una linea di condotta, è condotto a sua volta dentro un grande inganno? Proprio perché, pur avendo una precisa griglia sulla quale lavorare, la memoria montata inganna oltremodo quella vissuta.
Tutto si sposta allora in un piano nascosto dove, al contrario di Matrix (altro film sullo specchio degli inganni), la rivelazione non libera, inganna, segnato da un tocco di matita sulla pellicola in un tavolo di montaggio.
di Davide Zanza