The Brink
Con The Brink Alison Klayman torna a interrogarsi su Steve Bannon, ideologo che sta influenzando tutte le destre occidentali.
Con The Brink la giovane regista indipendente americana Alison Klayman torna a interrogarsi su Steve Bannon, ideologo che sta influenzando tutte le destre occidentali.
Appena pochi mesi fa, avevamo lasciato sullo schermo del cinema Steve K. Bannon inquadrato in primi e primissimi piani da Errol Morris, documentarista e intervistatore di talento che in American Dharma finiva però irretito e spiazzato dalla dialettica roboante, punteggiata da citazioni colte, comunque sfuggente, tipica dei ‘politici’, dell’intervistato. Ritroviamo l’artefice della vittoria di Trump nel 2016 e ora stratega principe – riconosciuto o autoproclamato – del movimento nazionalista e sovranista euro-atlantico (ma con propaggini sudamericane, a cominciare dal Brasile di Bolsonaro) nel nuovo documentario della giovane regista indipendente americana Alison Klayman The Brink – Sull’orlo dell’abisso (in sala grazie a Wanted Cinema).
Ormai fuori dall’ombra e continuamente on stage e on air, Bannon muove e manipola, con disinvoltura pari solo alla scarsa trasparenza, uomini, denari, notizie, e sempre più su scala globale: prima che a quello di America 2020, lui e i suoi sodali e mandanti guardano infatti all’obiettivo ormai imminente delle elezioni europee. La storia non è nuova: come nota egli stesso nel film, la Brexit e la vittoria di Trump erano strettamente legate; peccato si dimentichi di dire del ruolo giocato in entrambe le occasioni, e poi emerso con chiarezza, da quel ‘broker di dati’ che era ‘Cambridge Analytica’ fondata e foraggiata dai capitali della famiglia ultraconservatrice dei Mercer, gia finanziatori del sito d’informazione di estrema destra Breitbart News a lungo diretto da Bannon.
Trasformista verbale e comportamentale (ma coerente nella scelta di un abbigliamento molto dimesso, da ‘ordinary man’), portatore di tante diverse identità professionali – è stato manager nel campo della finanza, dell’entertainment, dei media, produttore e, ahinoi, regista cinematografico di film improbabili e opere propagandistiche (come il video Trump@War, da lui confezionato per le elezioni di mid-term 2018) – Bannon incarna alla perfezione, con le sue parole e le sue azioni, lo spirito del tempo (egli stesso nel film cita la parola Zeitgeist). Il nostro tempo, quello in cui la politica non si fonda più su idee e progetti ma è solo comunicazione (ovvero, per lo più, pura propaganda) e dove la menzogna costruita a tavolino e travestita da verità viene nutrita e amplificata dai canali social, attraverso precisi meccanismi e un potente apparato cyborg, ma alla rovescia: programmi, software, ‘bot’, algoritmi, ai quali eserciti di umani, di norma giovani e meno giovani precari (le folte schiere dei ‘troll armies’) prestano le proprie falangi per ribattere sulla tastiera i tweet e i post delle grandi centrali mondiali di ‘fake news’.
Ben distante dalla ‘messa in scena’ a camera fissa e immersa nel dialogo verbale tipica dei documentari di Morris, la Klayman accetta la sfida di una piccola produzione (di Maria Therese Guirgis che aveva lavorato con Bannon e lo aveva introdotto alla regista), si tiene lontana dallo stile Michael Moore e preferisce adottare un approccio da ‘cinema-verità’. Solleticando il narcisismo ipertrofico di Bannon, che anche in questo caso non lesina citazioni epiche e frasi apodittiche, il film non rinuncia a raccontare l’uomo e il suo (auto)romanzo (svelandone gesti, tic, emozioni e ipocrisie), ma soprattutto – cosa che più in effetti più ci riguarda e preoccupa – mostra il contesto, dunque le azioni e le alleanze concrete di Bannon.
Nell’arco di poco più di un anno – dall’autunno del 2017 al novembre 2018 – la camera della Clayman pedina Bannon e i suoi collaboratori (tra cui il nipote) nei loro spostamenti vorticosi a bordo di svariati mezzi di trasporto tra gli USA e l’Europa. L’agenda è duplice, e in entrambi i casi fittissima: le riunioni con i candidati e i tanti comizi (la regista immortala spesso di spalle il momento del suo arrivo accolto da autentiche ovazioni) su e giù per gli States nelle elezioni di mid-term a sostegno di Trump e del partito repubblicano; la costituzione in patria del movimento ‘C4-Citizens of the American Republic’ (più che altro un veicolo giuridico per poter rastrellare, grazie alle permissive leggi vigenti, finanziamenti opachi); la tessitura strategica e i tanti incontri per il lancio di “The Movement”, ovvero il movimento populista e sovranista globale che avrebbe dovuto unificare tutti i partiti di estrema destra e costituire un fronte comune per rovesciare l’odiato establishment europeo. Il bilancio dell’attivismo di Bannon & C. non è proprio esaltante: a novembre i Democrats hanno riconquistato brillantemente la Camera al Congresso; ‘The Movement’, progetto assai strombazzato, ha subìto in Europa distinguo e defezioni di peso (dalla Le Pen all’irlandese Farage, che era tra gli entusiasti della prima ora, quanto all’Italia Salvini e la Meloni hanno aderito ma senza in fondo darlo troppo a vedere). Eppure, per queste sue strategie l’instancabile Bannon continua a ricevere tanto denaro (con giusta perfidia, la regista nota prima dei titoli di coda che un miliardario cinese ha dato alla sua causa oltre 100 milioni di dollari, e dire che poco prima nel film aveva negato con decisione ogni possibile finanziamento da parte di investitori non americani).
Il montaggio puntuale (di Brian Goetz e Marina Kats) trova anche momenti di pausa che colgono Bannon (nell’intimità di casa sua o dalle finestre di hotel a 5 stelle, come quello di Venezia dove lo vediamo soggiornare e organizzare incontri per oltre una settimana nello scorso settembre…) riflettere sulla sua vita (ha appena compiuto 65 anni), sul nazismo, su Dio, sul karma individuale e sul dharma universale.
A differenza di Bannon, noi abbiamo molte meno certezze. Con scelta assai azzeccata il titolo scelto dalla regista – da una frase dell’amato Abraham Lincoln che Bannon legge nel film – evoca l’orlo di un abisso e l’azione di chi a quell’abisso sospinge. È la ‘strategia della tensione’, della divisione e della ‘polarizzazione’ (di emozioni e idee) che governa oggi le leggi dei media e dei social. È il gorgo in cui la ragione e l’umanità precipitano, e tutto può accadere, anche che, in Europa, le lancette della Storia corrano all’indietro.
di Sergio Di Giorgi