Thanksgiving
La recensione di Thanksgiving, di Eli Roth, a cura di Gianlorenzo Franzì.

Eli Roth entra nel cinema nel 2002 dalla porta principale, con Cabin Fever (2002): un horror dimostrativo su malattia e normalità, sulla carne tremula che sovverte l’ordine delle cose. E se con il secondo film, Hostel (2005), conferma la sua abilità nel trattare la materia come superfice da martoriare (abilità che raggiunge la sua scarnificazione, letterale, massima con The Green Inferno del 2015), subito dopo è come se si perdesse nei labirinti di senso creati da lui stesso, avvicinandosi e allontanandosi dall’horror più truce in maniera sistemica tale da far pensare alla perdita di ispirazione – via via fino a Il Mistero della Casa del Tempo (2018), un innocuo divertissement che ironizzava sulla paura e sulla sua messa in scena.
Ci sono voluti sette anni perché tornasse allora alla sua vena più autentica: Thanksgiving allora ripiomba il suo autore nelle zone a lui adatte, quelle perturbanti e esibite (Death Wish e Knock Knock erano fin troppo lineari pur nella loro atmosfera tensiva), ridefinendo il suo immaginario strabordante di sangue. Perché Roth sa bene che a lungo andare la frenesia macellaia finirebbe per annoiare e ripetersi su sé stessa: e allora parte da una sequenza perfetta e (ri)costruisce la sua drammaturgia, il suo impianto filmico, cosa evidente fin dall’ideazione del film stesso che nasce nel 2007 come fake trailer interno a Grindhouse degli amici Tarantino e Rodriguez.
Parte tutto da un centro commerciale -Romero?- non/luogo ancora una volta epicentro della violenza statunitense normalizzata, e arriva in zone teoriche coraggiose dove mentre la pelle si stacca dal corpo si ride e si capisce che l’efferatezza non è, e non è mai stata, preminente ma funzionale: un cinema cinico e insensibile al dolore, finestra su un mondo dove la violenza è qualcosa che alcuni meritano. Da qua ci si addentra poi in riflessioni più o meno nichiliste sull’umanità: ma quello che conta è che Thanksgiving riesce ad essere leggero e incisivo mentre diverte attraverso i codici dello slasher.

di Gianlorenzo Franzì