La recensione di Andrea Vassalle, seguita dalla rassegna stampa a cura di Simone Soranna riguardo a Tatami, di Zahra Amir Ebrahimi e Guy Nattiv, Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani.

Tatami, di Zahra Amir Ebrahimi e Guy Nattiv, distribuito da Bim Distribuzione, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:

«La lotta sportiva per la conquista del titolo mondiale di judo femminile, diventa azione politica quando le autorità iraniane impongono il ritiro alla possibile campionessa, che si ribella. In un bianco e nero dai forti contrasti, la coppia di registi firma un thriller metaforico teso e avvincente, dove l’incrollabile arditezza umana è la forza naturale per cercare di sconfiggere ogni regime, anche a caro prezzo».

La recensione
di Andrea Vassalle

Lo conosce bene, Leila Hosseini, il tatami, l’oggetto che dà il titolo al film diretto da Zahra Amir Ebrahimi e Guy Nattiv. È il tappeto sul quale si praticano le arti marziali, come il judo. È quello spazio che lei, capitana della nazionale femminile iraniana di questo sport, ha calcato molte volte e sul quale coltiva i provi sogni e le proprie ambizioni. Si esprime per il paese, per la famiglia, per sé stessa, coabitando quell’area limitata e definita con un avversario verso cui c’è rispetto e condivisione. Il campionato mondiale di Tbilisi è l’occasione per Leila di mostrare definitivamente il proprio talento e di ripagare i tanti sacrifici. Di puntare alla medaglia d’oro e a coronare un sogno lungo un giorno, la durata della competizione, ma che ha radici molto più lontane, forgiato incontro dopo incontro.

Il tatami su cui si trova a combattere però non assume le forme e le regole a cui la judoka è abituata. È ammorbato dall’ombra sempre più estesa di ingerenze politiche, intimidazioni, minacce ad opera del regime iraniano. Le viene infatti chiesto (o per meglio dire ordinato) sin dai primi turni di ritirarsi dal mondiale, per evitare l’ipotetica finale contro un’atleta israeliana. Da molti anni agli sportivi iraniani viene intimato di non competere contro rivali appartenenti allo stato, non riconosciuto dall’Iran, di Israele, e la stessa cosa capita a Hosseini. Senza nemmeno la certezza di un effettivo approdo in finale le viene imposto di rinunciare al proprio sogno, di infrangere le regole e la sportività che governano il judo. Tradendo così ogni sforzo fatto.

Leila sceglie però di opporsi, sfidando la federazione e il regime, e continuando a combattere (letteralmente e metaforicamente), decidendo di non abbandonare la propria morale, nonostante le minacce si facciano via via più invasive e persistenti. Non è la prima volta che si trova in questa situazione, ma “adesso il potere è nelle nostre mani”, come dice fermamente alla sua allenatrice. In Tatami sin dai primi minuti il tema sportivo e quello politico si intrecciano e si compenetrano, delineando un legame inscindibile che attraversa la nostra contemporaneità. La vicenda del film rievoca casi analoghi come quello di Saeid Mollaei, judoka iraniano che proprio durante il mondiale del 2019 denunciò le minacce ricevute affinché si ritirasse per non incontrare l’israeliano Sagi Muki. C’è un luogo però dove questo incontro è ancora possibile ed è quello del cinema. Tatami infatti è diretto da Guy Nattiv, israeliano, e Zar Amir Ebrahimi (che interpreta anche il ruolo dell’allenatrice), iraniana, dal 2008 in esilio a Parigi, e rappresenta la prima collaborazione tra registi di questi due paesi.

In un crescendo rossiniano di tensione, Leila si trova sempre più stritolata tra le pressioni sportive e quelle politiche, in un tatami che si estende ben oltre il campo di gara e che viene ripreso dalla forma dal palazzetto dello sport (inquadrato dall’alto in una delle prime sequenze) e dal formato 4:3. La lotta (in senso lato) deflagra dunque nell’intero spazio d’azione, percorso incessantemente e febbrilmente dai personaggi, tra corridoi labirintici, spogliatoi, stanze di allenamento e bagni. Ma si riverbera anche nell’immagine, inevitabilmente, che si richiude su Leila e che sussulta con il grido silenzioso quando si danna sulla cyclette o quando manda in frantumi lo specchio, sino alla spoliazione nel finale (privandosi del velo) per liberarsi della sensazione di soffocamento. A metà tra il film sportivo e il thriller politico (sull’onda quasi di Alan J. Pakula), Tatami è soprattutto il racconto di una donna che decide di non accettare più compromessi e di non cedere all’oppressione, che sceglie di vivere in esilio piuttosto che nell’ipocrisia e che non cede alla menzogna, l’elemento primario attraverso cui un regime riesce a prosperare. Tatami letteralmente significa “piegato e accatastato”, ed è quello che Leila non vuole più essere.

Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)

Nel complesso, Tatami è stato accolto piuttosto positivamente dalla stampa italiana, che lo ha da subito descritto come un film di grande impatto capace di costruire una metafora che attinge dallo sport per trattare temi politicamente scottanti e contemporanei.

Ad esempio, su Il fatto quotidiano, Anna Maria Pasetti descrive così la pellicola: «Acclamati, minacciati, puniti. Altrimenti auto-esiliati. Con quest’ordine procede il trattamento degli atleti iraniani da parte del patrio regime islamico, specie di fronte a una possibile sfida sportiva con Israele, il nemico (sempre più) giurato. Dunque ben venga il Tatami judo-cinematografico che tale sfida trasforma infelice incontro di regia, laddove l’israeliano Guy Nattiv e l’attrice neo-regista iraniana Zar Amir (per la Bbc tra le 100 donne più influenti e ispiratrici del 2022) si uniscono a co-firmare un thriller politico che viaggia alto, oltre ogni chiasso mediatico, retorico e propagandistico».

Lorenzo Ciofani, su La Rivista del Cinematografo, entra nel vivo della questione dando risalto all’insolita coppia in cabina di regia e alla scelta di distribuire il film a doppia mandata in Italia: «Esistono i contesti. Tatami, un film che di per sé avrebbe una sua rilevanza per l’inedita – e audace – collaborazione tra un regista israeliano (Guy Nattiv) e un’attrice iraniana per la prima volta anche dietro la macchina da presa (Zar Amir Ebrahimi, vincitrice a Cannes 2022 per Holy Spider), arriva in Italia in due passaggi, prima con un’uscita evento nella giornata delle donne (8 marzo) e poi in programmazione ordinaria dal 4 aprile. La logica c’è: le donne sono al centro della scena (anzi, del ring), le azioni rivelano un coraggio che può essere d’ispirazione, il mondo nel quale si muovono non è dei migliori».

Ilaria Feole invece, su Film Tv, lavora sul simbolo del tatami stesso, scrivendo che «il tatami è uno spazio delimitato, un’area dai confini precisi, entro la quale valgono regole altrettanto chiare: è il territorio su cui si scontrano gli atleti di arti marziali, il tappeto sul quale vigono le leggi della sportività. Quando Leila Hosseini, campionessa iraniana di judo, posa i piedi sul tatami della sua prima gara, ai mondiali femminili di Tbilisi, conosce le regole, conosce la sua forza e le sue possibilità di vittoria; conosce le dinamiche che entro quei confini sono in atto, e i rapporti di forza che governano il tappeto».

Di simboli si occupa anche Marianna Cappi la quale, nella sua recensione pubblicata per MyMovies, scrive che «la lotta fisica è metafora di una lotta psicologica che è anche politica ed esistenziale, e trascende il singolo. Il bianco e nero universalizza quest’idea e materializza la natura estrema del ricattto. Anche la scelta della Georgia non è casuale: paese coproduttore del film, è però anche simbolo di frontiera, tra Europa e Asia, una frontiera che può essere momento di incontro oppure dolorosa sezione».

Cristina Battocletti, sulle pagine de Il Sole 24 Ore, allarga ulteriormente la questione, inserendo il film nei filoni di film (non) sportivi che usano il contesto narrativo per indagare le piaghe politiche e sociali di un determinato periodo storico. Scrive così la critica: «Tatami non è un film “sportivo”, come non lo sono Toro scatenato, Million Dollar Baby e Foxcatcher – Una storia americana. Sono racconti di un popolo, di un’epoca, del conflitto tra la superiorità dei legami di sangue o di amicizia, resi attraverso uno sforzo fisico sovrumano.».


di Andrea Vassalle
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