Stringimi forte
La recensione di Elisa Baldini e la rassegna stampa a cura di Francesco Grieco per "Stringimi forte", film della critica per l'SNCCI.
Stringimi forte di Mathieu Amalric, distribuito da Movies Inspired, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI) con la seguente motivazione:
«Mettendo in scena un viaggio in macchina come fosse una lunga elaborazione del lutto, Amalric racconta il potere dell’immaginazione – e dunque del cinema – come unico cicatrizzatore possibile dei traumi, e lo fa attraverso un racconto che sa essere minimale e stratificato allo stesso tempo: un melodramma che sussurra con tragica dolcezza il bilancio di una vita e della sua fuggevolezza».
La recensione
di Elisa Baldini
«Dovevi inventarti una storia da poter raccontare». «È quello che sto facendo, tesoro». Mathieu Amalric, attore di comprovato talento, con Stringimi forte (Serre-moi fort) alla sua ottava regia cinematografica, rivela molto presto la chiave di lettura di quello che all’apparenza potrebbe sembrare un cubo di Rubik sentimentale orchestrato con lucidità e freddezza. I toni della meravigliosa fotografia di Christophe Beaucarne sono sì ovattati, come se fossero traslati dal quadro iperrealista di Robert Bechtle, Foster’s Freeze (1975) che campeggia nel salone della casa di Clarisse (Vicky Krieps, attrice rivelata da Il filo nascosto) e della sua famiglia, separati e sospesi in un limbo di attesa ed apnea che quel tipo di tratto e quei colori così nitidi riescono perfettamente a cogliere. Ma tutto scorre naturale e vibratile, come un crescendo di Chopin, ed i punti di fuga sono quei raggi di sole malfermo, ma a tratti accecante, che vediamo penetrare nei titoli di testa dalla neve ancora ghiacciata attraverso i vetri della AMC Pacer Break (auto d’epoca che sembra anch’essa sottratta da un quadro di Bechtle) con la quale Clarisse tenta il suo percorso di fuga, reinvenzione del reale e costruzione di un futuro dove è lei a sparire, a decidere di togliere sé stessa dal quadro, perché non ha voglia di stare ferma ad aspettare la primavera.
Rispetto alla pièce da cui è tratto il film, Je reviens de loin di Claudine Galéa e di cui Amalric non ha voluto mantenere il titolo, rubandolo, invece, dal testo del brano La nage indienne di Étienne Daho, la rivelazione di quello che realmente è accaduto, e che getta una luce dolorosa ed inquietante su quello che vediamo dopo, avviene ad un terzo del film (mentre nel testo teatrale arrivava solo alla fine): questo perché, come ha dichiarato Amalric, egli voleva che lo spettatore fosse complice della manipolazione e non astante manipolato di quello che non è un tentativo di elaborazione del lutto, ma l’immersione in un meccanismo naturale di difesa dalla pesantezza del lutto, che prevede spesso, nella sua fase iniziale, uno spostamento di senso, una sottrazione: «No, non può essere vero. Non può essere capitato proprio a me».
Ma se il ghiaccio sospende, (uccide la tua forza), il caleidoscopio sentimentale in cui Clarisse precipita si (e ci) scioglie gradualmente come neve al sole (divento più leggera), trascinandoci con lei in vortici e rimandi tra piani temporali che si aggrappano a parole, voci, melodie, dialoghi sussurrati e frasi scambiate tra le varie dimensioni di tempo e spazio e tra i personaggi, rumori e grida che incombono e ritornano (mi urli nelle orecchie), regalandoci tutta la carnale, tattile, meravigliosa essenza di questa perdita: è qui che l’immagine si sporca, che i corpi si toccano e restituiscono calore, per poi finalmente sparire, lasciare una casa vuota dove gli oggetti non sono più un tramite verso qualcosa che è stato o sarebbe potuto essere, ma sono tornati inermi, freddi, e, come tali, possono essere abbandonati, per partire davvero a cercare un altrove da abitare di nuovo.
Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Francesco Grieco)
Nel complesso, Stringimi forte di Mathieu Amalric è stato accolto positivamente dai critici italiani, che ne hanno messo in luce i punti di forza, a partire dalla regia, definita da Davide Turrini sul Fatto Quotidiano una «vera e propria messa in scena totalizzante alla Cahiers con Amalric (attore stratosferico sempre, regista di opere ancor più importanti) che si concentra su ogni singolo aspetto tecnico (focus sul suono: note musicali, fruscii, sussurri, grida, voci che danno il brivido acustico della poesia) e artistico (la direzione degli attori, per dirne una, ha del miracoloso)».
Già da questa prima citazione, emerge la componente attoriale come elemento fondamentale alla riuscita del film e, essendo Amalric uno dei più grandi attori francesi contemporanei, non ci sorprende che sappia valorizzare i colleghi. Né è una novità ormai il talento di Vicky Krieps: la sua, spiega Sergio Sozzo su Sentieri Selvaggi, è «una performance estenuante, i cui primi piani e la cui figura dinoccolata sono letteralmente le uniche bussole – difettate? – in possesso dello spettatore per orientarsi nel magma di immagini».
Stringimi forte è un film complesso, dunque, di cui Valerio Caprara sul quotidiano Il Mattino elenca «le tessere più adatte al puzzle onirico e allegorico (eco di voci interiori, sovrapposizione di stagioni, montaggio caleidoscopico)». In maniera analoga, Claudia Porrello su Segnocinema scrive che «il film costruisce un puzzle visivamente coinvolgente attraverso un uso quasi disorientante del montaggio e una fotografia che sfuma da toni caldi e toni freddi, a seconda del momento temporale in cui il racconto si colloca». Sul lavoro del cinematographer, aggiunge Marzia Gandolfi (MyMovies): «la fotografia velata e attutita di Christophe Beaucarne assimila presenza e assenza, reale e immaginario, passato e presente, mescolando le temporalità, destabilizzando il racconto ma mantenendo la strada».
Più tiepido il giudizio di Luca Pacilio su Gli Spietati, secondo il quale «da un lato il discorso del regista è molto chiaro – nel suo confondere le coordinate, muoversi su più livelli, tra storia possibile e impossibile, veglia e orinismo, fatti e what if -, dall’altra parte a questa lucidità di intenti fa riscontro una certa distanza, una coscienza intellettuale che raffredda una materia vibrante, viva, pulsante». Qualche perplessità è espressa anche da Emiliano Morreale sulla Repubblica: «Una volta capito il colpo di scena (che non sveliamo) arrivano divagazioni un po’ peregrine come il rapporto tra la pianista Martha Argerich e sua figlia. Rimane un certo fascino della composizione sfranta, ardita».
La natura “riflettente”, duplice, di questa composizione fa sì che Chiara Borroni su Cineforum, a proposito del film, citi Gilles Deleuze e «l’immagine-cristallo, intesa come l’immagine capace di essere al contempo attuale e virtuale». E se si teme il rischio che il gioco di Amalric sia troppo cervellotico, o fine a se stesso, nelle sue scelte stilistiche e narrative, Eugenio Renzi sulle pagine del Manifesto ci rassicura: «ogni volta che Serre-moi fort è sul punto di eccedere nel proprio formalismo si riprende, grazie a un dettaglio, un colpo di genio, una battuta».
di Redazione