Sopravvissuto — The Martian
Dopo il deludente Prometheus di tre anni fa, veramente pochi appassionati di cinema avrebbero scommesso su un ritorno di Ridley Scott a quel genere nella cui storia si è già ritagliato di diritto un posto con due pietre miliari quali Alien e Blade Runner che, insieme a 2001: Odissea nello spazio, saranno destinati a essere per sempre punti di riferimento irrinunciabili all’interno del cinema dedicato alle missioni aerospaziali ai confini dell’ignoto.
E invece il settantottenne regista britannico si è invaghito di un bestseller del californiano Andy Weir (inizialmente pubblicato a spese dell’autore e poi diventato in poco tempo titolo di culto presso gli appassionati dopo essere stato distribuito da un editore di grande prestigio), decidendo così di tornare a raccontare una storia che sfrutta i canoni e gli stilemi tipici del genere fantascientifico per rivisitare il mito di Robin Crusoe trasferito sugli scenari desolati del pianeta che da sempre ha alimentato la fantasia di scrittori e cineasti più di qualsiasi altro collega del sistema solare.
Sopravvissuto — The Martian (che la distribuzione nostrana ha pensato bene di svilire appiccicandogli un titolo italiano di mortificante infantilismo) è proprio quello: muovendosi quanto mai a proprio agio tra citazioni del capolavoro kubrickiano e riferimenti al meglio del cinema di genere — ma anche ad analoghe odissee solipsistiche in altri contesti tipo Cast Away —, Scott rivisita l’eterno tòpos letterario dell’uomo chiamato a sopravvivere da solo in un ambiente ostile e potendo contare unicamente sulla creatività e sul proprio senso di attaccamento alla vita per opporsi a una Natura variamente ostile.
E se uno dei maggiori difetti di Prometheus era proprio un certo eccesso di tendenza al filosofare ex cathedra su argomenti non immediatamente condivisibili dalla maggior parte del pubblico a scapito dello spettacolo e del rispetto di un certo tipo di fantascienza da viaggi nello spazio e nel tempo, qui Scott mostra di aver appreso la lezione. Limita infatti allo stretto indispensabile le tirate pseudoscientifiche usate come garanzia di credibilità di quanto raccontato e si concentra per buona parte del film sul semplice e squilibratissimo rapporto uomo-Natura proiettandolo qui sugli scenari di desolazione assoluta regalati dai deserti inesplorati di Marte.
E con questo non si vuole certo affermare che al film manchi il necessario sostegno scientifico. Tutt’altro. Prova ne sia che i due maggiori consulenti di settore sono stati la NASA (che ha reagito con entusiasmo quando Scott ha richiesto alla più grande agenzia aerospaziale del mondo di mettersi al servizio della produzione) e la Jet Propulsion Laboratory, che invece fornisce da sempre la strumentazione necessaria a tutte le missioni americane nello spazio e che qui non ha negato una preziosa collaborazione a livello tecnologico.
Ciò non ostante, nel film non mancano gli svarioni proprio in quel campo in cui due partner di tale prestigio avrebbero dovuto essere una garanzia inattaccabile di credibilità scientifica. Quando la NASA capisce che l’astronauta Mark Watney (pur con tutta la sua geniale creatività sostenuta dal background da biologo che gli permette addirittura di coltivare patate su Marte) non avrà cibo a sufficienza per attendere i nove mesi necessari alla missione di salvataggio per raggiungerlo sul pianeta rosso, a offrirgli un salvagente è il solito nerd genialoide senz’arte né parte che fa le scarpe a uno stuolo di scienziati navigati e propone una rotta alternativa che alla fine sarà la chiave del successo.
Così come poco in linea col cinema di razza che in 50 anni di carriera Ridley Scott ha mostrato di saper sfornare sono certe componenti di faciloneria hollywoodiana (bandierine USA ovunque, celebrazioni del mito del successo, aperture ruffiane a collaborazioni con la Cina, etc.) che aleggiano qua e là per la pellicola e che la privano a tratti di quel concentrato di incrollabile determinazione e insieme di umanissimo sconforto che è il viagra segreto del suo universo poetico, unico in un genere troppo spesso svilito dal trionfo degli stereotipi.
Ma anche così, in questa odissea marziana incrociata con il mito di Robinson Crusoe Scott non si lascia infatti tentare da nessuna delle sirene tipiche della fantascienza commerciale. Raccontando la storia dell’astronauta che sopravvive per anni su Marte potendo contare solo sulle risorse del proprio ingegno, l’ex designer della BBC divenuto un maestro indiscusso del cinema di genere converte in magia di immagini una vicenda fin troppo romanzesca per avere anche solo modesti margini di verisimiglianza pur nella sua scoperta fisionomia di tipico prodotto di fiction futurista
Quel che conta per Scott non sono tanto la tecnologia e tutte le fumisterie e gli ammennicoli che la devono rendere credibile presso il grande pubblico, quanto piuttosto l’attenzione al percorso interiore del suo eroe solitario chiamato a combattere da solo contro un intero pianeta così come la sua progressiva capacità di adattarsi a condizioni estreme che lo costringono a ripensare il ruolo dell’intera specie umana all’interno sia del percorso evoluzionistico che della sua presenza insignificante se sradicata dagli angusti confini terrestri e proiettata sul palcoscenico sconfinato della galassia.
Per farlo Scott sceglie una cifra che avrebbe aiutato Prometheus a essere quel che non è stato. E cioè la forza dell’ironia che attraversa tutto il film affidata com’è al personaggio di Mark Watney (un magnifico Matt Damon in stato di grazia da Oscar costretto a stare da solo in scena per quasi tutti i 140 minuti del film senza mai annoiare il pubblico), capace di stemperare la consapevolezza di una morte annunciata col ricorso costante a battute salaci nei video-messaggi che incide per lasciare un diario digitale della propria battaglia di sopravvivenza contro lo straripante potere della Natura.
Girato per 70 giorni in 20 faraonici set costruiti nei mega studios Korda di Budapest (i più grandi del mondo) ma soprattutto nei paesaggi lunari di Uadi Rum della Giordania meridionale (uno scenario mozzafiato del tutto naturale che potrebbe far pensare i più a miracolose operazioni di grafica computerizzata pur non essendolo affatto), Sopravvissuto — The Martian è un kolossal extra large che può contare su un cast di super lusso con divi di generazioni diverse che riescono nell’impresa di non sfigurare accanto a un gigantesco Matt Damon nei panni del protagonista.
Una nota merita infine la colonna sonora, autentico «uomo in più» che fa da basso continuo a buona parte della pellicola: mentre l’astronauta-biologo combatte la sue battaglie quotidiane contro la ferocia ambientale del pianeta rosso, a dargli involontariamente la carica e a fare insieme scaturire l’antidoto dell’ironia sono le (da lui) odiate canzoni disco in perfetto stile anni ’80 che il comandante della missione si è portata dietro nello spazio e che sopravvivono a tutto e a tutti col loro carico di cattivo gusto.
Se saranno in molti a salutare il ritorno di Ridley Scott a quel genere che gli ha già regalato un posto nella storia del cinema con un film capace di cancellare tutto d’un colpo alcuni passi falsi commessi nel recente passato, non potranno di certo non entusiasmarsi al sapere che il regista inglese ha appena concluso la scrittura del sequel del più celebrato e mitizzato di tutti i suoi film. Ovvero quel Blade Runner cui Sopravvissuto — The Martian sembra strizzare l’occhio quando punta buona parte delle sue carte sul rapporto impari che c’è tra l’eroe della storia raccontata e tutto ciò che sovrasta i limiti del suo essere uomo.
Trama
Abbandonato sul pianeta rosso dai colleghi a seguito di una violentissima tempesta che li costringe ad annullare in maniera repentina la missione, un biologo deve cercare di sopravvivere in un ambiente del tutto ostile contando soltanto sulla propria creatività e nelle disperata attesa che dalla Terra la NASA organizzi in tempo utile una missione di salvataggio.
di Redazione