Snowpiercer
Non perdetevi questo insolito mix di blockbuster e riflessione cupissima sul domani che ci potrebbe arrivare addosso. A firmarla è il coreano Bong Joon-ho, autore di film di culto tipo Memories of Murder, The Host o Mother, il quale qui piega la ricetta del kolossal apocalittico con forti venature distopiche alle ragioni più intime del proprio cinema. E il risultato è un prodotto anomalo nel suo genere, ovvero quello piuttosto abusato delle riflessioni pessimistiche sul futuro del pianeta Terra e sulle esigue possibilità di decente sopravvivenza che i suoi abitanti si troveranno ad avere a disposizione tra non moltissimi anni.
Siamo infatti a un battito di ciglia dai giorni nostri. Ma nel lasso di tempo in cui (come si dice a Tutto il calcio minuto per minuto) non si è stati collegati, le novità di un certo livello non sono state poche. Tanto per cominciare la Terra, a seguito di uno sciagurato esperimento scientifico teso a contrastare il riscaldamento globale, è stata convertita in un desolante deserto di ghiaccio. E, come se non bastasse, questa ibernazione ambientale ha decimato gli abitanti del pianeta: ridotto a uno sparuto manipolo di reduci di se stessi: quel che resta dei dominatori dell’orbe terracqueo vive segregato all’interno di un treno (lo Snowpiercer del titolo) che vaga privo di meta alcuna in giro per il mondo. Senza mai fermarsi perché il suo stesso moto perpetuo è l’origine prima dell’energia che gli permette di funzionare sfrecciando in mezzo alle distese di pack artico che si estende ovunque.
Il treno riproduce al suo interno quella stessa struttura sociale (in altre epoche strutturabile secondo la forma geometrica della piramide) che ha da sempre caratterizzato ogni moderna forma di collettività: solo che qui si va dagli ultimi vagoni fino alla testa del convoglio e non dalla base larghissima ai vertici ristretti. E se in coda vivono gli schiavi ammassati come sardine in carrozze sudice e senza alcun confort, man mano che si procede verso la testa tutto migliora in maniera sensibile, fino ad arrivare al trionfo delle carrozze più avanzate dove vive il dittatore Wilford e i suoi più stretti collaboratori si godono la vita avendo a propria disposizione ogni forma di lusso (discoteche, saune promiscue, scuole d’elite e tutto ciò che rende dorata la esclusiva vita di quei pochi che si possono permettere il meglio grazie al sudore dei molti cui tutto è invece negato).
Come però è sempre accaduto in ogni regime caratterizzato da forti squilibri sociali ed economici, anche in questo folle treno coi vagoni blindati come camere stagne e apparentemente inaccessibili gli uni dagli altri le masse proletarie sottomesse con la violenza e l’abuso fremono speranzose nell’attesa che si manifesti una personalità superiore capace di sollevarli e ribellarsi all’ingiustizia.
Quando questo individuo si palesa (e ovviamente ciò accade non molto dopo che il film ha permesso allo spettatore di familiarizzare con lo stato delle cose nel mondo di domani), i proletari potranno finalmente prendere coscienza di sé e la loro ribellione si manifesterà con un’anabasi al contrario che dai vagoni di coda li porterà fino alla testa del convoglio. Ma come ogni rivoluzione violenta che si rispetti, anche questa insurrezione su rotaie non porterà agli esiti sperati e il finale (anticipato da due pre-finali usati con accortezza per depistare) avrà in serbo per il pubblico una sorpresa non da poco che però è bene non anticipare.
Apparentemente sembra che il tema trattato in questo Snowpiercer sia l’ennesima riproposizione di uno schema già visto e rivisto dai tempi di Metropolis in poi (e ne fanno fede due recenti variazioni di vaglio quali Upside Down ed Elysium) passando ovviamente per altri classici quali Blade Runner e la trilogia di The Matrix: ovvero tutta la parafernalia narrativa delle distopie relative alla barbarie che verrà, con piccole élite di privilegiati che tiranneggiano masse amorfe di schiavi anonimi e il solito scenario da lotta di classe a fare da sfondo allo scontro inevitabile tra i due mondi inconciliabili.
Ma se è vero che a livello tematico il film non rappresenta una novità assoluta nel suo genere, sono invece molti i motivi per cui è di fatto un’opera molto originale proprio all’interno di un sottogenere ormai cristallizzato e in parte ingessato nella riproposizione di cliché abusati e di archetipi ineludibili. Tanto per cominciare è una bizzarra coproduzione tra USA, Francia e Corea, con questo paese che ha battuto il record del film più costoso mai prodotto da quelle parti (si parla di un budget di 35 milioni di euro).
Girato nei dintorni di Praga con maestranze internazionali, vanta un cast di pregio ugualmente internazionale con stelle del calibro di Chris Evans (qui nei panni dell’agitatore di popolo che spinge gli schiavi alla ribellione), Ed Harris, Tilda Swinton, John Hurt e il coreano Song Kang-ho, attore feticcio di Bong che l’ha voluto con sé nella maggior parte dei film diretti e che qui interpreta la figura chiave del tecnico tossicodipendente che ha progettato i sistemi di sicurezza del treno e che, proprio per questo, è stato incarcerato a vita per evitare che ne rivelasse gli arcani.
Non meno originale sono però il soggetto e la messa in scena. A monte di tutto c’è infatti la graphic novel di culto di metà degli anni ’80 Le Transperceneige dei francesi Jean-Marc Rochette, Jacques Lob e Benjamin Legrand (riedita in questi giorni in Italia dall’Editoriale Cosmo): Bong si era invaghito di questa cupa utopia al contrario a fumetti nel lontano 2005 e aveva subito consigliato all’amico regista Park Chan-wook di acquistarne i diritti prima che Hollywood ci mettesse le mani sopra. Da allora il cammino produttivo dell’impresa era stato lastricato di difficoltà e ci sono voluti quasi otto anni prima che il sogno divenisse realtà.
Ma originalissima è sopratutto la messa in scena scelta da Bong. Fedele a un’idea di cinema nella quale sono le convenzioni dei generi che devono essere piegate alle urgenze espressive della propria creatività e non (come quasi sempre accade) il contrario, Bong ha rovesciato come un guanto il monolite del kolossal apocalittico, trasformandolo in qualcosa che lo ricorda solo nell’impianto narrativo ma che pare invece del tutto diverso dal solito per quanto concerne le scelte formali. Pur accettando infatti le regole del genere di appartenenza, il film di Bong le trasgredisce praticamente in ogni scena alternando continuamente toni e registri per non lasciare mai che lo spettatore riceva ciò che sarebbe lecito attendersi.
Ed è così che Snowpiercer si presenta come una potente allegoria del nostro oggi attraverso una cupa visione distopica di quel che potrebbe attenderci domani. Il tutto fatto come se la rivoluzione che viene raccontata fosse una specie di complesso videogioco nel quale i protagonisti vedono aumentare le difficoltà man mano che risalgono verso la testa del treno. Senza però mai lasciare che il ritmo scolori in iterazione passiva né che il dinamismo selvaggio dell’azione diventi stanca ripetizione e sopratutto che le regole del genere abbiano il sopravvento sull’estro dell’inventiva visiva e coreografica del suo autore.
Trama
Anno 2031. A seguito di un fallito tentativo di contrastare il riscaldamento globale, la Terra è precipitata in una nuova glaciazione. I pochi superstiti sono stati imbarcati su un treno che viaggia intorno al mondo senza mai fermarsi e al cui interno vi è una rigida divisione tra le classi sociali (in coda ci sono i proletari mentre in testa le classi privilegiate si godono la vita) garantita dal ferreo controllo di un tiranno che guida la locomotiva. Ma una ribellione organizzata dagli umiliati e offesi della terza classe sovverte l’ordine imposto, proprio mentre il clima sembra si stia avviando a garantire nuovamente condizioni di accettabile vivibilità sul pianeta.
di Redazione