Sleuth
In questo thriller insolito e ben congegnato tutto accade in uno stesso luogo chiuso, pensato come un palcoscenico in cui gli elementi d’arredo divengono diaboliche macchine scenografiche e la sofisticata illuminazione delle stanze assolve la funzione di un impianto tecnico teatrale. L’intera villa di Adrew Wyke, affermato scrittore di gialli, sembra un luogo approntato per una messa in scena, quella da lui stesso concepita e preparata per il giovane attore Milo Tindle, amante di sua moglie. E’ un gioco delle parti, un duello di parole, ma anche una sfida pericolosa che coinvolge fisicamente i due protagonisti, quella che Branagh racconta.
Il film è tratto da una piece di Anthony Shaffer, già portata sullo schermo nel 1972 da Joseph Mankiewicz, con l’omonimo titolo Sleuth – Gli insospettabili. Nella versione di Branagh la piece teatrale è riadattata da Harold Pinter e l’attore Micheal Caine, che nel film di Mankiewicz interpretava il ruolo dell’amante, lascia il suo posto a Jude Law per interpretarne l’avversario, il marito. La quasi totale unità di spazio e tempo della storia, congeniale ad una rappresentazione teatrale, potrebbe facilmente essere d’impaccio e costituire un limite nella trasposizione cinematografica. Tuttavia il regista, che da sempre ha attinto all’universo del teatro, decide sapientemente di non celare la derivazione teatrale del soggetto, ma al contrario di enfatizzarla, di ostentarla. E’ per questo che punta, oltre che su una sceneggiatura dai dialoghi impeccabili e sulla bravura degli attori, su una soluzione scenografica originale, che viene concretamente usata in senso teatrale, in quanto serve gli attori, si fa strumento dell’azione scenica. La villa dall’arredamento freddamente minimalista, ovunque invasa da dispostivi tecnologici raffinatissimi che suggeriscono un’angosciante ossessione per il controllo, non è solo la scenografia del film, ma è anche lo spazio scenico pensato e creato da Andew, e da lui usato come attore e regista di una mefistofelica farsa, un gioco perverso e rischioso, in cui le parti di continuo si scambiano e si confondono. All’inizio del film sarà lo scrittore a decidere i cambi di luce e atmosfera, manovrando i fari al centro del salotto, che tingono le geometrie dello spazio di un’infinita gamma di colori lividi e freddi. Pareti scorrevoli, scale, la botola sul soffitto, l’ascensore che porta alla stanza da letto, tutto è manovrato a distanza con un piccolo telecomando che, come spesso avviene sul palcoscenico, esibisce spudoratamente la sua valenza di oggetto simbolico, di feticcio del potere, nelle mani ora dell’uno ora dell’altro protagonista.
I due uomini, ingaggiando una lotta all’ultimo respiro, si confrontano e si affrontano ingannandosi sempre reciprocamente. Il confine tra realtà e messa in scena è sempre labile, non si sa mai quale colpo della pistola sia a salve e quale sia quello mortale. E’ un film fatto soprattutto di dialoghi, una prova ardua per gli attori, perfetti nei loro ruoli, mai statici: Micheal Caine sa essere una mente diabolica, un marito cinico e calcolatore, poi un uomo accecato dalla gelosia, infine un maturo scrittore che subisce il fascino del giovane e sfrontato Jude Law, a sua volta sempre pronto a indossare una maschera diversa. Maschera che diviene un filtro per le parole, perché determina un ruolo, in un film in cui del resto la stessa realtà visiva è a sua volta continuamente filtrata: dalle numerose telecamere di sorveglianza, infiniti occhi che spiano, accrescendo la tensione per ciò che avviene in un invisibile fuori campo. Come quegli oggetti che, appunto, divengono materialmente un filtro attraverso cui la macchina da presa osserva i protagonisti: il vetro dei bicchieri che distorce l’immagine, le veneziane alle finestre che la dividono in tante strisce orizzontali. E come filtro funzionano anche le superfici riflettenti che alterano e falsano la realtà, i piccoli tasselli del grande specchio in cui infine il volto di Milo si frammenta, e soprattutto il proiettore, azionato ancora col telecomando, che moltiplica all’infinito sul muro l’immagine dei due uomini uno accanto all’altro, metafora scoperta del moltiplicarsi dei ruoli che recitano l’uno all’altro. La donna che i due protagonisti si contendono non appare mai sullo schermo, ma rappresenta quell’espediente narrativo necessario che permette agli attori di giocare una partita rigorosamente a due, sempre pericolosamente tesa dal principio alla fine. La regia di Branagh gioca con suggestioni tipicamente teatrali e al contempo sfrutta al meglio le prerogative e le potenzialità espressive del mezzo cinematografico, facendo avvertire fortemente i movimenti della macchina da presa, che ora sorprende i protagonisti inquadrandoli dall’alto, ora li osserva segretamente con uno sguardo voyeuristico, fermandosi ripetutamente su primi piani intensi e significativi.
di Arianna Pagliara