Sirat

La recensione di Sirat, di Oliver Laxe, a cura di Marco Lombardi.

È raro, di questi tempi, trovare un film che ha il coraggio della libertà, scegliendo delle soluzioni narrative che normalmente verrebbero ripudiate dagli algoritmi e dell’ipocrisia del politicamente corretto, e quindi da quasi tutti i produttori. In Sirat si respira infatti il profumo della libertà, consci che il cinema è pur sempre finzione, e che qualunque cosa che nella realtà verrebbe considerata atroce, in un film ha il beneficio della metafora, cioè di significati altri. A noi, infatti, Sirat sembra un’enorme rappresentazione della vita tout court, e nello specifico della contemporaneità, perché il mondo dei rave, che normalmente viene considerato come un agglomerato di rifiuti umani, viene visto come una palestra di vita: anche nella vita danziamo senza sosta fra le onde del dolore, cercando di neutralizzarle con mille diversivi distraenti, se non anestetizzanti (il lavoro, il sesso, lo sport).

È quello che succede a Sergi Lopez, un padre qualunque che va alla ricerca della figlia scomparsa, insieme al figlio più piccolo, nel mezzo di un rave che si svolge in Marocco. Lì la figlia non c’è, ed è così che questo padre si unisce a un gruppo di raver che, dopo l’evacuazione per opera dei militari, si muove in direzione di un altro rave. La comunanza di obiettivi cementa il gruppo, ma Sergi Lopez diventerà uno di loro solo quando verrà investito anche lui da uno tsunami di dolore, di quelli tanto improvvisi, quanto intollerabili. È allora che il deserto diventerà sempre di più uno spazio simbolico che fa pensare a un bellissimo film di Gus Van Sant, Jerry, rimandando anche a Il deserto dei Tartari: non solo Sirat non ci regala una pillola compensativa, come quasi sempre succede nel cinema contemporaneo, addirittura il nemico invisibile di quel deserto si accanisce ulteriormente contro tutti i personaggi, aggiungendo dolore al dolore, e buio al buio.

Fino a un finale che è un proseguimento di quel sirat – che in arabo significa “cammino verso la salvezza” – su un treno improbabile/su delle rotaie improbabili/con dei passeggeri improbabili verso un nuovo livello di quell’oscuro gioco dell’esistenza, anticipato da una splendida inquadratura di un altoparlante che rappresenta una curva dentro al buio del mistero. “Ballate, balliamo questa danza tribale del dolore, ma sempre tenendoci per mano”, sembra dirci Óliver Laxe, un regista che ha sempre vinto premi con i suoi tre film precedenti, ma con l’inserimento nel concorso principale a Cannes 2025 sembra essere approdato definitivamente, e con merito, sull’isola degli autori che valgono.


di Marco Lombardi
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