Simon Konianski

È possibile convivere con l’abisso, il dolore, la sofferenza dentro il cuore? È concepibile pensare al futuro e alla vita anche quando i ricordi sono densi di orrore? Si possono amare le proprie radici anche se si percepiscono come fonti di regole ossessive e opprimenti? La risposta è si. Basta vedere tutto attraverso il filtro dell’ironia e possedere un pizzico di follia. Simon è tutto ciò. È un ribelle ma in fondo ama profondamente il suo vecchio genitore sopravvissuto alla Shoah. È stato sposato con una ragazza non ebrea ma decide di seppellire suo padre nel cimitero ebraico di un villaggio ucraino, compiendo un viaggio terribilmente difficile. Fa, in famiglia, delle sparate contro Israele (con sommo scandalo per gli zii) ma in fin dei conti sente di appartenere in tutto e per tutto al suo popolo.
Se c’è un pregio nel film di Micha Wald è, in modo inequivocabile, la sua impostazione filosofico/esistenziale. Simon Konianski è un film che si ispira con chiarezza alla complessità e profondità del pensiero ebraico. È un’opera scoppiettante, acuta, sincera che inanella geniali contraddizioni, accelerazioni e decelerazioni, improvvise deviazioni, analisi esistenziali significative, situazioni esilaranti, altre commoventi, alcune tragiche. I film è basato su una struttura narrativa divisa in due. La prima: la raffigurazione della vita delirante e un po’ sfigata di Simon nel Belgio dei nostri giorni. La seconda: il viaggio che il ragazzo compie con i parenti per portare la salma di suo padre in Ucraina.
Tale impostazione, di fatto, crea una sorta di doppio racconto. I toni sono simili: vivaci, rapidi e volutamente cangianti, ma mentre le scene iniziali sono dotate di una vibrante brillantezza narrativa e registica, in quelle conclusive il clima della storia diviene via via più prevedibile e monotono. Fino a una conclusione decisamente monca. Micha Wald si conferma al suo secondo lungometraggio un cineasta capace e parecchio vicino a determinate tendenze visuali contemporanee. La costruzione delle inquadrature e il ritmo del montaggio sono fattori basati sulla fotografia di reportage e sui metodi comunicativi dei nostri giorni. Questa personale e moderna scelta di stile subisce però alcune battute di arresto, in special modo quando il citazionismo finisce per prendere il sopravvento. Allen, Kusturica e Mihaileanu sono sempre dietro l’angolo mentre fin troppo evidenti sono le citazioni da Entr’acte di René Clair e Il posto delle fragole di Ingmar Bergman ( la bara che cade, n.d.r.).
Si ha così l’impressione che Micha Wald abbiamo voluto mettere troppa carne al fuoco: cultura cinematografica, pensiero ebraico, memoria e Shoah, umorismo e orrore, commedia e road-movie, storia collettiva e storia privata. Proprio questo eccesso di fattori emerge come il principale limite di un film che comunque è caratterizzato da una sincerità intellettuale non indifferente.
I brani in cui Wald accentua i toni commoventi non sono mai compiaciuti e spettacolarizzati, anzi proprio in queste scene il regista ritrova un’improvvisa ed efficace misura espressiva che evita il pericolo dell’autoreferenzialità. Sono, questi, i passaggi in cui il cineasta vira verso la Memoria, con la solennità dovuta e il rispetto necessario. Si tratta di vere e proprie sospensioni del racconto che alludono a quel terribile vuoto che alberga come un macigno nel cuore dell’Europa e che rimarrà per sempre come segno indelebile dell’orrore indicibile.
di Maurizio G. De Bonis