Silent Night – Il silenzio della vendetta

Le recensioni di Silent Night - Il silenzio della vendetta, di John Woo, a cura di Emanuele Di Nicola e Gianlorenzo Franzì.

La recensione
di Emanuele Di Nicola

Una delle grandi trovate di genere è la privazione della percezione. L’horror e il thriller pullulano di vittime sorde, mute, cieche. Più raro è trovare un assassino senza parole: ci pensa John Woo, al secolo Wu Yu-seng da Hong Kong, 77 anni, da trent’anni trapiantato a Hollywood, col suo film di Natale, che si chiama inevitabilmente Silent Night con l’aggiunta del sottotitolo italiano Il silenzio della vendetta. In realtà il protagonista Brian (Joel Kinnaman) non è muto dalla nascita, anzi è il classico padre americano con una bella famiglia, moglie e figlio, e l’unico torto di vivere in periferia, al confine con la suburbia dominata dalle gang criminali.

È la vigilia di Natale, il 24 dicembre, quando un proiettile vagante colpisce mortalmente il piccolo mentre giocano in giardino; al padre spetta invece un colpo dritto in gola, sparato dalla teppa che insegue, che non riesce ad ammazzarlo ma lo rende afono. Non può più parlare. Può invece organizzare la vendetta, dura e implacabile, da consumarsi esattamente un anno dopo nella stessa notte, la vigilia di Natale che diventa rosso sangue.

Il film inizia con una sequenza vertiginosa: l’uomo all’inseguimento in ralenti, con maglione natalizio e campanellino al collo, che sprigiona una dolce melodia, e segue il percorso di un palloncino rosso manco fossimo in un film di Hou Hsiao-hsien, Le voyage du ballon rouge. Poi, quando Brian raggiunge i malviventi, esplode il colpo di pistola e lo ritroviamo sul tavolo operatorio, con moglie affranta all’esterno, sulle note di Silent Night. Del resto è Natale… Notevole. Nella prima parte il racconto si concentra sul lutto e la sua elaborazione, sfogliando le tappe tipiche della situazione, dalla disperazione all’alcolismo, passando per la rottura inevitabile con la partner e la rigorosa preparazione fisica, svolta nella palestra personale, con tanto di video training sull’uso delle armi che serve chiaramente per preparare il revenge.

Il primo segmento si sviluppa all’insegna della retorica visiva della perdita, con Brian che rivede il bambino, tra flashback e allucinazione, lascia intatta la sua cameretta e crede di ritrovarlo perfino in un bimbo qualsiasi intravisto al supermarket, mentre acquistava materiale edilizio utile per il massacro. Quindi giunge la seconda parte, il cuore della vendetta, ossia il punto della questione, trattandosi di John Woo, il condensato dell’action da fine anni Ottanta, per molti l’espressione suprema. Qui la dinamica diventa meno convincente. C’è un dato narrativo di fondo, Brian resta sempre uomo, non diventa macchina perfetta per uccidere, bensì un essere umano allenato ma con tutte le sue difficoltà, come attesta la sequenza del primo omicidio in cui vomita davanti al fatto compiuto. Si offre dunque una parabola d’azione tradizionale, tra rincorse, spari e gocce di sangue, in cui Brian va alla caccia dei malviventi senza particolari guizzi.

Mancano i consueti punti di visione, la capacità di posizionare la cinepresa propria del regista, l’abilità nel piazzare la zampata, la maestria nella costruzione della sequenza. L’idea stessa alla base della vicenda, l’assassino muto, non viene sfruttata per aumentare il potere di genere ma si limita alla constatazione, lui non parla mentre gli altri intorno ne dicono di tutti i colori. Insomma, l’impressione è che Silent Night potesse girarlo un carneade dell’azione hollywoodiana, forse non serviva il maestro di Hong Kong per confezionare un action thriller natalizio tutto sommato prevedibile. Resta comunque il magnifico incipit, degno dell’autore di Hard Boiled e Face/Off.

La recensione
di Gianlorenzo Franzì

John Woo è uno di quei maestri indiscussi del cinema non tanto – o non solo – per aver messo la firma ad alcune delle opere più belle e influenti a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, ma anche – o soprattutto – perché ha contribuito a (ri)scrivere la sintassi di certo cinema, allargando poi a macchia d’olio la sua importanza dall’action al cinema tout court. A Better Tomorrow e The Killer sono tra i suoi film più esplosivi prima del suo passaggio/travaso ad Hollywood: dove cose come Mission Impossible 2 o Face/Off hanno rinforzato la sua fama prima del ritorno in patria, ad Hong Kong.

Con Silent Night torna però sui suoi passi, ei contamina nuovamente con il cinema dei grandi numeri: e lo fa con un film che riprende la possanza del suo periodo americano, consapevole però di non dover dimenticare i suoi punti fermi autoriali. E il film allora sembra una sorta di rieducazione all’action, possedendo un inizio realmente folgorante che suona quasi come una dichiarazione d’intenti: a partire dal nucleo della storia, magmatico, con un protagonista muto che (quasi) non proferisce parola per tutto il film.

Riportando quindi tutto, programmaticamente, metaforicamente, alla pura forza delle immagini che altro non è che un riposizionamento, una ricerca di prospettiva (lo slogan stesso dice “action speaks louder than words”) che conferma come il linguaggio della Settima Arte debba essere, o perlomeno dovrebbe o dovrebbe cercare di essere, una ricerca grammaticale continua, un’invenzione senza sosta. Come nel cinema muto, dove la sostanza era necessariamente la forma.

Un film che allora tiene conto di come il cinema stesso sia inesorabilmente cambiato, maturato, andato avanti (i codici del genere per le nuove generazioni sono dettati da John Wick): ma il volere riprenderli e rielaborarli, innestandoli sui propri codici, non è un passo indietro ma ovviamente due in avanti, nel momento in cui un Maestro, con umiltà, osserva quello che gli gira intorno e lo spiega a modo suo.


di Emanuele Di Nicola e Gianlorenzo Franzì
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di Emanuele Di Nicola e Gianlorenzo Franzì
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