Silence
Forse per la complessità e la delicatezza del tema – il rapporto dell’uomo con la fede e in senso lato la relazione tra immanente e trascendente – forse per le ingombranti necessità che una tale, grandiosa ricostruzione storica porta con sé, l’ultimo film di Scorsese ha avuto una gestazione complicata e lunghissima. Ma dopo quasi trent’anni la trasposizione del romanzo Silence (1966) di Shûsaku Endô ha preso definitivamente forma in tutta la sua imponenza, tradotta in un racconto filmico corposo e denso, che procede secondo ritmi narrativi perfettamente calibrati – nonostante la durata superi abbondantemente le due ore – sfoggiando un’abilità descrittiva che, in termini visivi, è davvero maestosa e superba.
Già portato sullo schermo nel 1971 dal regista Shinoda Masahiro, il libro di Endô – giapponese di fede cristiana – prende le mosse dalla controversa vicenda storica del gesuita portoghese Cristóvão Ferreira, missionario in Giappone nel ‘600 noto per aver commesso – scandalosamente – apostasia, scegliendo di abbracciare il buddismo. Gli anni in cui visse Ferreira per i giapponesi convertiti al cristianesimo furono costellati da persecuzioni e violenze; lo stesso gesuita avrebbe rinnegato la sua fede solo dopo essere stato barbaramente torturato.
Ma il vero protagonista del romanzo, e dunque anche del film, è il giovane Rodrigues, che insieme al compagno Garupe decide di partire per ritrovare appunto il suo mentore Ferreira, ciecamente convito che la notizia che lo vuole apostata non sia altro che una terribile calunnia. I due impavidi gesuiti appaiono guidati, più che da vero e proprio coraggio, da una fede ostinata e totalizzante e, con una consapevolezza molto relativa dei rischi a cui stanno per esporsi, si avventurano con pericolosa fiducia in un terreno che – sul piano concreto quanto ideale e morale – si rivelerà molto più infido di quello che avevano temuto.
Da una parte la presa d’atto delle terribili condizioni in cui vivono i cosiddetti “kakure kirishitan” (cristiani nascosti), dall’altra il dilemma morale che prende corpo nel momento in cui si è costretti scegliere – pretendere dai fedeli la perseveranza e la morte o l’abiura e la salvezza? – faranno in parte vacillare le certezze di una fede percepita, fino a quel momento, come assoluta e incrollabile. Ma, soprattutto, il silenzio assordante di Dio di fronte al martirio straziante dei fedeli – già perennemente vessati e tormentati in quanto contadini in uno spietato universo feudale – insinuerà dolorosamente il dubbio nel sentire angosciato e lacerato di Rodrigues.
Scorsese, assieme al pluripremiato scenografo Dante Ferretti, si prodiga nella realizzazione di un affresco storico di ampio respiro nel quale neppure un dettaglio – la foggia di un kimono o di un copricapo, o ancora la gestualità rituale della liturgia – è lasciato al caso. Oculata e ineccepibile è poi la scelta dei paesaggi splendidamente fotografati da Rodrigo Prieto, che esibiscono una bellezza quieta e suggestiva ma anche crudelmente indifferente.
Altrettanto attenta è la selezione degli interpreti: tra gli attori giapponesi figurano nomi importanti come Shinya Tsukamoto, regista del cult cronenberghiano Tetsuo e Issey Ogata, già protagonista de Il sole di Aleksandr Sokurov. A Liam Neeson è affidato invece il ruolo del granitico Ferreira, mentre il coprotagonista Garupe ha la fisionomia – insolita e indovinatissima – del versatile Adam Driver, recentemente visto nel toccante Hungry Hearts di Saverio Costanzo e nell’acclamato Paterson di Jim Jarmush. Rodrigues, vero cuore pulsante del racconto, votato a un percorso di sofferenza nel quale riecheggia con una simbologia più che esplicita quello del Cristo, è invece interpretato da Andrew Garfield, che – nonostante abbia forse minore duttilità e forza espressiva di Neeson e Driver – riesce comunque a caricare sulle proprie spalle, senza vacillare, il peso di un personaggio che attraversa una destabilizzante metamorfosi, per certi versi enigmatica ed imperscrutabile.
Ma il senso ultimo del film di Scorsese sta soprattutto nella profondità delle grandi, eterne questioni che solleva, che attraversano ma trascendono il rapporto dell’uomo con la metafisica per ancorarsi a un piano specificamente etico e morale nel momento in cui il pensiero dogmatico – tutto occidentale e cristiano, pericolosamente univoco, inconsapevolmente arrogante – si scontra con la realtà, rischiando di sommare violenza a violenza pur pretendendosi portatore, all’opposto, di un messaggio di concordia e tolleranza. In queste discrepanze, in questi scarti incolmabili tra le traiettorie della speculazione e la tangibilità della vita concretamente vissuta, Silence restituisce tutta la complessità irriducibile del reale.
Trama
Nel 1633 due giovani gesuiti portoghesi partono per il Giappone sulle tracce del loro maestro Padre Ferreira, che avrebbe commesso apostasia per diventare buddista. Incapaci di credere a quella che reputano solo un’infamante calunnia e mossi da una fede profonda e ostinata, i due preti si scontreranno con una violenza indicibile che rischierà di insinuare dubbi tormentosi nelle loro – apparentemente – incrollabili certezze.
di Arianna Pagliara