Vermin

La recensione di Vermin, di Sébastien Vaniček, a cura di Elisa Baldini.

Vermin-poster

Nel palazzo dove vive Kaleb (Théo Christine) non funziona mai niente: le porte non si aprono o chiudono bene, le stanze sono piccole e anguste, c’è sporcizia ovunque, e, soprattutto, le luci si accendono e si spengono quando vogliono loro. Siamo nel fulcro della banlieue parigina, in un quartiere che di riqualificato ha solo le promesse non mantenute. Promesse a cui Kaleb non crede più, da quando quelle della sua giovinezza sono state tutte tradite: il sogno di aprire uno zoo di animali esotici insieme all’amico di infanzia Jordy (Finnegan Oldfield), con il quale non parla più da anni, quello di una famiglia felice, infranto dalla morte della madre e da un muro di incomprensione che lo tiene lontano dalla sorella Manon (Lisa Nyarko).

Kaleb non vuole più fare alcun giuramento e rifiuta fermamente quelli degli altri, ma i vecchi sogni gli sono rimasti attaccati addosso come ragnatele, tanto che la sua camera è diventata la succursale di quel famoso zoo progettato con l’amico e ospita una serie di animaletti che hanno bisogno di calore e luce, mentre la sua famiglia si è allargata agli abitanti del palazzo di 15 piani dove ogni giorno tenta di sopravvivere un’umanità varia e chiassosa, tenuta insieme da un riottoso spirito di solidarietà. Un giorno però, Kaleb porta a casa un nuovo esemplare esotico: una strana specie di ragno proveniente dal deserto che rivelerà presto la sua natura infestante e distruttiva.

Vermin, quindi, primo lungometraggio di Sébastien Vaniček, già autore di corti di successo, vira improvvisamente dall’affresco caotico di un palazzo ricettacolo di rabbia e frustrazione, ai tópoi del genere horror ed escape movie, camera a mano e fughe attraverso corridoi che sembrano cunicoli di una rete fognaria dove i poliziotti costringono a forza gli abitanti del palazzo, vittime sacrificabili per impedire la diffusione nel mondo esterno del ragno-virus. Costretti a un vero e proprio lockdown e alla convivenza con il “mostro”, Kaleb e la sua famiglia espansa dovranno semplicemente continuare a fare quello che hanno sempre fatto, come dice Manon: difendersi, tentando di riconoscere i punti deboli del nemico, che abbia otto zampe oppure indossi una divisa.


di Elisa Baldini
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