Tehroun (Tehran)

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sic2009tehrounIbrahim gira per le strade di Tehran chiedendo l’elemosina, in braccio ha un neonato. Racconta di essere vedovo, ma scopriamo in realtà che è in attesa che la moglie incinta lo raggiunga; intanto divide una stanza con due amici, Fatah e Madjid. Rimasti vittime di un raggiro i tre uomini cercheranno di risolvere la questione mettendosi sulle tracce della ladra e cercando nello stesso tempo di procurarsi i soldi per pagare un debito imponente, entrando così sempre più in contatto con loschi giri in un crescendo di situazioni e con un epilogo imprevisto.

Tre uomini e un neonato a Tehran, o meglio a Tehroun come viene pronunciato il nome della capitale iraniana nello slang di chi vive nei quartieri più popolari. Non è una commedia ma un drammatico e intenso film di grosso impatto per i temi trattati. Ibrahim il volenteroso, Fatah il saggio e Madjid l’ingenuo non hanno nemmeno una culla, ma dividono uno stanzone al pian terreno dai muri scrostati, con i materassi allineati sul pavimento su cui sono ammonticchiate coperte variopinte e un fornellino da campo. Il lunario lo sbarcano come possono. Il bimbetto Ibrahim lo ha affittato per guadagnare meglio con le elemosine. Fatah guida un taxi. Madjid è il più giovane e scanzonato. Nella capitale del Paese degli ayatollah la vita scorre veloce. Non si odono Muezzin. I muri bianchi e i cancelli scuri proteggono appartamenti e ville residenziali, le strade piene di buche e di pozze attraversano mercati e abitazioni fatiscenti. Le attività e i comportamenti delle persone che Nader T. Homayoun mostra nel suo lungometraggio di esordio sono molto lontani dall’immagine della società restituita dai media. Non vi è cenno a movimenti politici o a forme di opposizione, piuttosto emerge un profondo malessere che alimenta e si alimenta nella corruzione e nel crimine, con tanto di rapine, ricettazione, droga, prostituzione, tratta e sfruttamento dei minori. Neanche le moschee con i loro oculati prestiti a garanzia sembrano uscirne bene in questo film asciutto, dalla trama incalzante e dai personaggi molto ben delineati, stilisticamente ammiccante al neorealismo ma privo di compiacimenti formali, capace di rendere con sguardo originale un mondo pervaso di conflitti sociali. Nulla a che vedere con i lenti piani sequenza simbolicamente espressivi ed esteticamente raffinati dei maestri del cinema iraniano. Un film scioccante, espressione di una delle nuove tendenze del giovane cinema di quell’area.

Nader T. Homayoun, nato a Parigi nel 1968, scopre l’Iran per la prima volta negli anni della rivoluzione islamica. Nel 1993, superato il concorso per entrare al dipartimento di regia dalla FEMIS di Parigi, decide di stabilirsi in Francia. Già selezionato a Venezia con il suo cortometraggio C’est pour bientôt (2000), nel 2005 ha realizzato il documentario Iran, une révolution cinématographique, storia dell’Iran attraverso il suo cinema, presentato in diversi festival internazionali.

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RECENSIONE

Teheran, capitale dell’Iran, diventa nello slang dei quartieri popolari “Tehroun”, la città invisibile che si cerca di tener nascosta e in cui tutto è possibile. E’ qui che Nader Takmil Homayoun, nato a Parigi nel 1968, ambienta il suo film d’esordio, un intenso e dolente spaccato sociale del Paese degli ayatollah. In quest’opera prima, asciutta e vibrante, non vengono affrontati direttamente temi politici ma, attraverso le vicissitudini dei protagonisti, si avvertono il malessere e i conflitti che si celano dietro la facciata ufficiale del Paese e che sono, recentemente, esplosi nel dissenso. Pedinando i personaggi del suo film, Homayoum ci mostra un universo caratterizzato dall’insicurezza e dalla mancanza di moralità: alla fine, persino la figura più angelica di questo affresco, la moglie di Ibrahim, per aiutare il marito in difficoltà, non esiterà a trasportare un carico di droga. Tehroun non risparmia nulla allo spettatore ed esibisce, con partecipazione ma senza moralismo, un campionario di degrado e di corruzione, frutto della povertà: traffico e sfruttamento di minori, prostituzione di giovani donne (seppur con il velo tradizionale), rapine e ricettazione. Non scampano all’occhio rigoroso del regista neanche le autorità religiose che, invece di aiutare chi ha bisogno, chiedono garanzie, alla stregua di qualsiasi banca. In un mondo del genere, non può esservi un epilogo felice: l’ingenuo Madjid e il volenteroso Ibrahim pagheranno con la vita il loro tentativo di cambiar vita, unendosi ad un gruppo di criminali. Del terzetto iniziale di amici, sopravvivrà soltanto Fatah, il personaggio più saggio e divertente del film. Homayoun realizza un’opera, per temi e per stile, lontana dai moduli espressivi del cinema del suo paese: Tehroun sembra guardare, anziché alle pellicole lente e raffinate dei cineasti iraniani, ai capolavori del neorealismo. Uno sguardo e una sensibilità originali, privi di compiacimenti formali, per un film coraggioso che cattura e convince.

Mariella Cruciani

INCONTRO CON NADER T. HOMAYOUN

di Mariella Cruciani

Come siete riusciti a non incappare nella censura?

Abbiamo chiesto l’autorizzazione, abbiamo detto che era un film documentario senza attori professionisti e senza battage pubblicitario. E’ difficile fare film in Iran ma avere il coraggio di farlo fa parte del lavoro.

Gli attori sono davvero non professionisti?

E’ difficile, nel cinema iraniano, dire cos’è un attore e cosa non lo è. Molti giovani sperimentano e, sperimentando, diventano attori veri. Nel mio film, ci sono due attori professionisti: colui che affitta il bebè e il personaggio della concessionaria di auto. Per quanto riguarda i restanti, alcuni hanno avuto piccole parti in teatro o al cinema, altri, invece, nessuna esperienza. C’è stata anche una scena particolarmente delicata per tutti: la scena in cui l’uomo e la donna giacciono insieme. Nel nostro cinema non è possibile mostrare questo! Anche al personaggio della prostituta, poi, è dedicato uno spazio inusuale per il cinema iraniano.

Sono queste le cose che disturbano la censura?

Non è una singola scena: per la censura, bisognerebbe tagliare il film intero. Per la mentalità iraniana, se un problema non si vede, non c’è. Per prima cosa, non bisogna mostrare mendicanti e omosessuali! Anche l’affitto dei neonati, la prostituzione, il clima di insicurezza, l’assenza di moralità: tutto questo disturba.

Il film sembra avere un finale felice, ma poi c’è un colpo di scena…

Il finale scelto è stato imposto dall’evolversi del film: questa fine era nel destino. Secondo me, il protagonista ha cominciato a morire quando ha accettato di fare del male agli altri.

La scena del funerale si svolge tra bandiere verdi. Perché?

Il verde è il colore del martirio ed ha una forte connotazione religiosa: per questo, il funerale si svolge tra le bandiere!

Il film uscirà in Iran?

Credo che non otterrà facilmente il permesso delle autorità: finirà, forse, per poco tempo in qualche piccola saletta. Io volevo fare un film non censurabile, che potesse essere apprezzato in Occidente ma anche in Iran.

Come si pone rispetto al cinema iraniano?

L’Iran è stato, per molto tempo, chiuso: i cineasti del mio paese non hanno potuto viaggiare. La mia formazione, invece, è francese: ho una sensibilità diversa rispetto a quella del mio paese. Non sono l’unico, però: oggi, ci sono molti giovani registi che hanno gli strumenti per fare cinema in maniera diversa.

Mariella Cruciani


di Redazione
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