Malqueridas
La recensione di Malqueridas, di Tana Gilbert, a cura di Emanuele Di Nicola.
Malqueridas, esordio della giovane cilena Tana Gilbert, nata nel 1992, è uno di quei film che già parte da un materiale straordinario: le riprese dai cellulari delle donne detenute in Cile, condannate a pene lunghe, che mostrano i loro figli. I quali stanno crescendo distanti. Ma i cellulari dietro le sbarre sono vietati, quindi sono immagini destinate ad andare perse: la regista le recupera e assembla fra loro, insomma le “salva”. Dai fotogrammi impresse nelle schede si forma gradualmente l’esperienza della vita precedente, in particolare dell’essere madri.
Dell’aspetto miracoloso dell’esistenza, evocato proprio nella fase più difficile, vediamo scorrere gli istanti ordinari: bambine e bambini appena nati, la culla, il bagnetto, la cura intesa come preoccupazione, quindi come forma d’amore. Ci sono le smorfie dei bimbi piccoli, i loro compleanni, l’inizio della crescita. Ma ciò che stiamo guardando è lontano dal normale, come attestano chiaramente, all’improvviso, le riprese rubate dentro gli istituti di pena, inquadrature precarie che schermano lo sguardo perché lo mostrano attraverso le celle. Ed ecco il senso della loro battaglia, essere madri e insieme prigioniere.
Il cinema dal cellulare negli ultimi anni ha consegnato immagini fondamentali, strappate soprattutto ai regimi, cioè da quelli che vietano lo sguardo tradizionale e costringono all’invenzione di un altro perché oggi, per fortuna, non si sfugge alle riprese, grazie a cellulari e occhi meccanici niente è più censurabile. C’è la lezione di Jafar Panahi in Iran, ma anche i grandi film resistenti siriani come, a titolo di esempio, Silvered Water, Syria Self-Portrait.
Da parte sua Malqueridas usando il documentario di montaggio, alternando fotografie a filmati, nell’arco di 74 minuti mostra la solidarietà intrinseca tra le donne e la forza della loro resistenza. Attenzione: non vediamo solo la tenerezza, che si deve a una madre col figlio lontano, né il senso di sorellanza, ma anche i lati oscuri. Il doc, onestamente, scruta nell’abisso della disperazione dietro le sbarre, che a un certo punto prende un nome preciso: suicidio. La solitudine invece viene stemperata proprio dal legame che si crea tra le ragazze, le quali non smettono mai di considerarsi un gruppo e quindi esserlo, estraendo una coscienza dalla loro condizione. Un film che pone il problema delle carceri, applicato al femminile, e insieme la questione del linguaggio. A conferma che lo sguardo del cinema è superiore alle ingiustizie dei governi.
di Emanuele Di Nicola