L’Armée du salut (Salvation Army/L’esercito della salvezza)

A Casablanca Abdellah trascorre le giornate in casa, vivendo con il padre un rapporto conflittuale e di complicità, mentre in strada incontra uomini per occasionali rapporti sessuali. Durante una vacanza, il fratello maggiore Slimane, per il quale il ragazzo nutre una venerazione, lo abbandona. Passano dieci anni. Abdellah abita con l’amante svizzero Jean. Lascia il Marocco per Ginevra, ma decide di troncare la relazione e iniziare da solo una nuova vita. Trova riparo in una casa dell’Esercito della Salvezza, dove un ragazzo marocchino gli canta una canzone del suo idolo Abdel Halim Hafez.

L’esordio di Abdellah Taïa, dal suo romanzo L’esercito della salvezza (Isbn), è sorprendente per rarefazione narrativa e formale. Descrive, in una sorta di quattro atti, l’adolescenza e la prima vita adulta di un personaggio che forma, in un contesto sociale problematico, la sua identità e la sua omosessualità. Taïa mette in immagini la propria esperienza (il protagonista ha il suo stesso nome) in una storia dove i silenzi, gli sguardi, gli abbracci e le carezze, il suggerito e il non visto sono portati in evidenza ben più delle parole. Come le ambientazioni, anch’esse scarne fin quasi all’astrazione. I “quattro atti” (nella casa della sua famiglia; sulla spiaggia con i due fratelli; “dieci anni dopo” per accennare la relazione fra lui e Jean; a Ginevra) sono altrettante tappe nella vita di un ragazzo deciso, con tutti i mezzi, a liberarsi del passato. Taïa abbandona Abdellah di fronte a un ri-inizio, mentre un giovane marocchino gli canta la canzone che ama e ascoltava in un film di un maestro del cinema egiziano, Henri Barakat. L’Armée du salut è un mélo prosciugato, ma di quel cinema arabo custodisce tutta la dolcezza e la febbre.

Abdellah Taïa, marocchino, 39 anni, è il primo scrittore arabo ad aver pubblicamente dichiarato la propria omosessualità. È l’autore di romanzi tradotti in diverse lingue, fra cui Une mélancolie árabe (2008), Le jour du roi (Premio de Flore 2010) e Infidèles (2010). L’armée du salut, tratto dal libro omonimo dello stesso Taïa, è il suo primo lungometraggio di finzione.

Note critiche di Mariella Cruciani

Abdellah Taia, primo scrittore arabo ad aver fatto coming-out sulla propria omosessualità, ha tratto dall’omonimo suo romanzo L’armée du salut (2006) il materiale per esordire nel mondo del cinema. Come ha raccontato lo stesso Taia, un produttore francese ha letto il romanzo e l’ha contattato per un adattamento. All’inizio, lo scrittore marocchino ha rifiutato: ha avuto bisogno  di anni per dimenticare il romanzo e trovare, poi, le immagini. Anche se l’ispirazione è autobiografica, è stato necessario oggettivare tutto: scrivere un romanzo è un processo più istintivo, immediato, mentre nel cinema è necessaria la riflessione. Il film è diviso in quattro atti che vanno dall’adolescenza del protagonista, interpretato da Said Mrini (Abdellah giovane) e Karim Ait M’hand (Abdellah adulto), in Marocco alla gioventù in Svizzera, prima con l’amante Jean, poi in una casa dell’Esercito della Salvezza.

Il regista sceglie di mostrare attimi, istanti dell’esistenza del suo alter-ego perché, ha detto, “la vita vera è sempre frammentaria e mai lineare: sta allo spettatore ricostruire la storia, anche la propria”. L’armée du salut è un racconto di formazione in cui contano i silenzi, gli sguardi ma, soprattutto, i corpi, negati dalle relazioni familiari. “Io penso che la vita sessuale di un individuo nasca dall’interazione di più cose e passi attraverso la famiglia” – ha commentato Taia. E ha aggiunto:”il protagonista, quindicenne, in alcune scene viene violentato, in altre sceglie lui. In ogni caso, non è una vittima ma un eroe che resiste, anche facendo male ad altri, per esempio all’amante Jean”. Di fronte ad una dichiarazione come questa, ci si trova costretti a riflettere sul concetto di libertà e viene da pensare alla definizione che ne ha dato Sartre: “Io credo che un uomo può sempre fare qualcosa di ciò che si è fatto di lui” o, in altri termini, ciascuno è responsabile di ciò che subisce. Sartre esemplifica questa idea nel monumentale saggio dedicato a Jean Genet, scrittore omosessuale, proprio come Taia. Con “Santo Genet, commediante e martire”, il filosofo francese scrive una sorta di biografia clinica in cui è centrale il momento in cui Genet decide di assumere su di sé il proprio ruolo (“Ho deciso di essere ciò che il delitto ha fatto di me”). Che significa: ho deciso di assumere il trauma, la crisi originaria e di ripeterla all’infinito. Alla base, naturalmente, vi è un’ingiunzione sociale, familiare.

Come ben si comprende, il film di Taia spalanca questioni esistenziali gigantesche alle quali ognuno darà risposta secondo la propria cultura, formazione, esperienza. Ciò che è certo è che non si tratta, banalmente, di un’opera sull’omosessualità ma sul tema, ben più difficile e complesso, dell’identità: la realtà non è mai solo bianca o nera e, nel film di Taia, l’opacità, l’oscurità, l’ambiguità sono le cifre stilistiche corrispondenti ad una visione del mondo sofferta e duramente conquistata. Un sé autentico è possibile, ma a quale prezzo? – è la domanda che il regista  pone, con intensità, coraggio e con il giusto pudore.

(Mariella Cruciani)


di Redazione
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