Café Noir
A Seul, alla vigilia di Natale, un giovane professore viene lasciato dall’amante. Vagando per la città con un regalo che gli ha lasciato la figlia adolescente della donna, incontra una collega che insegna nella scuola frequentata dalla ragazzina, entra in una libreria, beve un caffè seduto accanto a una sconosciuta. Nella seconda parte del film, lo stesso uomo accetta che una ragazza incontrata per caso gli racconti le sue pene d’amore, con la promessa di non innamorarsi di lei, ma di accompagnarla e amarla come un fratello. Ma dopo quattro notti di incantevole intimità lungo il fiume e nei caffè cittadini, l’amato inaspettatamente ritorna.
Merita senz’altro l’impegno di una visione che supera le tre ore, Café noir, affascinante opera prima di uno stimato critico cinematografico coreano, Jung Sung-il, che si muove senza timori tra modelli corposi come la Nouvelle Vague e lo Sturm und Drang con l’agilità e la grazia di una danzatrice orientale dall’ambiguo sorriso. Un film enigmatico e spiazzante, ricco di citazioni cinefile e di spunti letterari, a partire dai due grandi romanzi che innervano la narrazione e i dialoghi: Le notti bianche (1848) di Fedor Dostoevskij, già portato al cinema da Luchino Visconti nel ’57, e I dolori del giovane Werther (1774) di Wolfgang Goethe. Ecco dunque l’eterna storia dell’amore atteso e disatteso, dell’amore respinto e vagheggiato, dell’amore raccontato e immaginato che diventa il tramite per definire l’identità in perenne divenire di un soggetto permeabile a tutte le suggestioni. In una interminabile peregrinazione attraverso gli spazi della grande metropoli, che l’autore esplora con nitidi carrelli e lunghe panoramiche, il protagonista incontra molte donne diverse dopo che la sua amata, sposata con un altro, l’ha lasciato e mentre ogni tentativo di strapparla al rivale appare impotente. Come lui bisogna lasciar andare e lasciarsi andare a questo flusso di coscienza che prelude alla seconda parte, dove le quattro notti di San Pietroburgo sono affidate a un bianco e nero splendente e sublimate dall’uso intenso delle musiche d’opera, a partire dall’Elisir d’amore di Donizetti, come se le parole dello scrittore russo fossero pronunciate e ascoltate per la prima volta.
Jung Sung-il è nato a Seul nel 1959. Critico cinematografico di chiara fama, tra il 1989 e il 1999 è stato redattore capo delle principali riviste specializzate coreane “Road Show” e “Kino”. Ha coordinato i laboratori tenuti da Jia Zhang-Ke alla Korean Film Academy nel 2000 e nel 2007 e da Hou Hsiao-hsien presso il Pusan International Film Festival nel 2005 e la Cineteca di Seoul nel 2006. Café noir è il suo primo lungometraggio.
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Recensione
Per il suo passaggio dal ruolo di famoso critico cinematografico del suo paese a quello di regista debuttante, il coreano Jung Sung-il chiede allo spettatore di abbandonarsi, per più di tre ore, ad una “variazione musicale” di “I dolori del giovane Werther” di Goethe e “Le notti bianche” di Dostoevskij. Il risultato finale è un’opera prima lenta e compiaciuta, ricca di citazioni, cinematografiche e letterarie. Nella prima parte, percorsa da una velata ironia, Young-soo (Shin Ha-gyun, uno degli attori sudcoreani più significativi), giovane professore di musica in una scuola elementare, cerca di posticipare la separazione da Mee-yeon (Moon Jeongh-hee), madre di una sua allieva, dopo il ritorno in patria del marito. Contemporaneamente, un’altra Mee-yeon (Kim Hye-na), vanamente innamorata di lui, si aggira intorno al professore.
Nella seconda parte, caratterizzata da un raffinato bianco e nero, Young-soo incontra, per caso, Sun-hwa (Jung Yu-mi): la ragazza gli racconta le sue pene d’amore, in cambio della promessa di non innamorarsi di lei e di starle vicino come farebbe un fratello. A legare insieme i due episodi, di fatto autonomi e distinti, è il protagonista principale e il ritorno, alla fine, di personaggi della prima parte. Intenzione del regista-critico è, probabilmente, creare una sorta di percorso circolare (“le persone ripetono all’infinito le storie che leggono nei libri”) dal quale si possa uscire e rientrare a piacimento. Si tratta di un obiettivo ambizioso e non privo di rischi: se le due storie, prese separatamente, interessano e avvincono, la scelta di fonderle in un’unica “sinfonia dei sentimenti” genera la sensazione di assistere a qualcosa di forzato e di poco naturale. A “Café noir” non si può rimproverare nessuna mancanza, né per i contenuti né per lo stile: è, semmai, l’eccesso il suo limite e la sua debolezza.
Mariella Cruciani
di Redazione