Selfie
Con Selfie Agostino Ferrente torna a Napoli e realizza un film che sfida l’estetica cinematografica e crea un percorso tra i sogni e i corpi della città.
Con Selfie Agostino Ferrente torna nelle periferie di Napoli e realizza un film che è al tempo stesso una sfida all’estetica cinematografica e un percorso emozionante tra i sogni, le paure, i corpi della città.
“Invece parlaci delle cose belle” chiedeva il regista Agostino Ferrente a una delle giovanissime protagoniste di Intervista a una madre (2000) e poi, ormai donna adulta, de Le cose belle (2013), i due documentari co-diretti con Giovanni Piperno e premiati in diversi festival. La risposta era un lungo silenzio, ma anche la ‘disperata vitalità’ del suo sguardo. Perché, se il tuo mondo è una prigione i cui muri sono sia fisici che mentali – e il più alto di tutti è quello che, nei tanti Sud del mondo, si chiama destino- è difficile parlare delle ‘cose belle’, e forse pure immaginarle.
Ancora una volta, a distanza di quasi venti anni da quel primo documentario, Ferrente (classe 1971, nel frattempo co-fondatore e animatore dell’Apollo 11 a Roma e regista di un piccolo cult-film come L’orchestra di Piazza Vittorio, 2006) torna, da solo, nelle periferie di Napoli, quelle ancora più difficili come il rione Traiano, inseguendo un episodio di cronaca nera che aveva reso, per un po’, tristemente noto il quartiere: un sedicenne, Davide Bifolco, scambiato per un latitante, era stato colpito a morte alle spalle in sella a un motorino da un carabiniere durante un inseguimento nel 2014. Un fatto emblematico, rivelatore del contesto, ma che in realtà diventa il pre-testo per una operazione sicuramente più sfidante, etica ed estetica a un tempo: fare cinema nell’epoca dei ‘selfie’. Se, come aveva detto Godard, per un regista ogni inquadratura è una scelta morale, sono le linee del ‘campo’, tra narrazione e rappresentazione, a essere oggi più confuse e occorre allora fondare una nuova relazione, o alleanza, tra chi vuole raccontare e chi vuole raccontarsi, fondata, più che mai, sul rispetto, la fiducia, l’empatia (gli esiti della sfida hanno intanto portato l’opera a essere segnalata come ‘Film della Critica” dal SNCCI).
In un luogo ormai trasfigurato dall’immaginario televisivo (e cinematografico) quale sono le periferie violente di Napoli, Ferrante deve quindi superare stereotipi e barriere, in primo luogo quelle di una ‘auto-narrazione’ troppo spesso intesa come delega o ‘concessione’ di una ‘camera’ (qualunque essa sia), dunque dello stesso sguardo autoriale, o come semplice raccolta di testimonianze in prima persona mediata da uno schermo e da un microfono. I suoi intenti, del resto, non sono pedagogici (su questo versante già dal 2009 filmmaker come Andrea Caccia hanno maturato esperienze di lavori ‘partecipati’ tramite utilizzo di semplici cellulari, specie nelle scuole). Il regista ricorre invece a ciò che chiama ‘l’espediente del selfie responsabilizzato’: dare in mano ai protagonisti del film, ovvero in primo luogo a Pietro ed Alessandro, sedicenni come era Davide, il “compito di auto-inquadrarsi, da me guidati, guardandosi sempre nel display del cellulare come se fosse uno specchio”. Proprio sfruttando le potenzialità dello smartphone (oggi in pratica una protesi del nostro corpo) l’espediente diventa il metodo di una ricerca che indaga il confine incerto tra la rappresentazione del mondo e di noi stessi nel mondo o meglio del mondo così come visto da noi stessi (in questo assecondando il narcisismo e l’auto-referenzialità indotti e riprodotti di continuo dai social media, non a caso così ossessivamente abitati e abusati dai nuovi leader politici).
Con il loro corpo fisico (assai ingombrante nel caso di Pietro) ed espressivo per mimica, prossemica e innati tempi comici, come si conviene a Napoli, Pietro e Alessandro occupano la trama portante del racconto, ma senza oscurare la coralità di un’opera che allinea diverse altre interessanti testimonianze del quartiere, un paio anche di ragazze, in un universo, come quello della strada, prevalentemente maschile. Uno scenario percorso molto spesso a piedi, e in salita, nel cuore di una torrida estate, su un altro incerto crinale: quello tra la realtà (anche la più cruda e amara) e la finzione (ovvero sempre più spesso l’auto-finzione, quella che un po’ tutti pratichiamo sui social, dove preferiamo proiettare all’esterno una immagine soltanto ‘positiva’ di noi). Se per questo decisivo aspetto Le cose belle, che rintracciava dopo oltre 10 anni i protagonisti del primo documentario, lavorava attraverso il gioco del tempo trascorso, Selfie usa soprattutto lo spazio, e in particolare lo scarto tra gli spazi reali – vicoli stretti, spiazzali deserti e assolati, ma anche i frame senza anima registrati dalle telecamere di sorveglianza – e gli spazi immaginati della ‘messa in scena’. Qui Ferrente usa la sua inventiva registica, in chiave quasi sempre ironica o addirittura parodistica, ad esempio rispetto ai ‘sogni’ di benessere, o consumismo, o di puro riposo e divertimento, di Pietro e Alessandro. I quali, sono in fondo due ‘bravi guaglioni’ (uno lavora presso un bar, l’altro si esercita usando gli amici come cavie per diventare parrucchiere), amici per davvero, senza far parte di alcuna ‘gang,’ e questo, al rione Traiano, appare quasi un gesto rivoluzionario.
Peraltro, il percorso di auto-rappresentazione e presa di consapevolezza che il film offre a entrambi sarà tutt’altro che lineare e a tratti conflittuale: Alessandro vuole raccontare solo le ‘cose belle’, l’altro anche le cose brutte (come in ogni documentario che si rispetti), ed è più accondiscendente verso le pressioni degli altri, adulti o ragazzini, del quartiere che vogliono ‘entrare’ nel film brandendo pistole o simulando scene da Gomorra. Infine, a cavallo del Ferragosto, Pietro andrà qualche giorno in vacanza coi parenti ed Alessandro resterà veramente solo, al centro del display, per il commovente finale del film.
A dispetto delle apparenze, il controllo autoriale sul progetto del regista resta molto forte, a cominciare dalla composizione formale di molte scene e soprattutto grazie al potere di selezionare al montaggio (di Letizia Caudullo, con Chiara Russo), tra i tanti frammenti, quelli che, e in quale sequenza, comporranno la trama complessiva. Ma altrettanto evidente è la complicità (l’alleanza appunto) che si instaura con Pietro, Alessandro e con tutte le altre persone (mai personaggi) nella produzione delle immagini e che orienta non solo i percorsi ma soprattutto il tono, sempre immediato, della scrittura del film. Sarà poi la freschezza interpretativa dei protagonisti e la forza stessa del dispositivo a regalarci, quasi ad ogni istante, un senso di felice sorpresa, nella scoperta di un più ampio display che guarda oltre i muri scrostati e claustrofobici del rione, con disincanto ma anche con senso di responsabilità, e soprattutto, con la capacità di emozionarsi. E le emozioni, qua come già ne Le cose belle, arrivano in primo luogo attraverso la musica (e la parola poetica) delle canzoni neo-melodiche, ma anche attraverso le poesie che la scuola non è stata capace di fare amare.
Sarà invece la didascalia finale (dopo gli inserti video dell’omicidio di Davide) a riportarci alla realtà: il carabiniere che era stato condannato in primo grado ha visto dimezzata la pena in appello lo scorso ottobre e il fratello di Davide è morto per infarto pochi giorni dopo la sentenza (anche per questo, a proposito di diritti umani e di processi equi, il film ha ottenuto il patrocinio di Amnesty Italia).
di Sergio Di Giorgi