Sangue del mio sangue
Il cinema di Marco Bellocchio, settantacinquenne che non ha mai perso lo smalto del ragazzo terribile capace di usare il cinema come una clava iconoclasta per accelerare il crollo della società al collasso di cui è prigioniero e aedo al contempo, si è sempre nutrita di grandi temi ricorrenti. La famiglia, la rivoluzione culturale del ’68, la religione, il terrorismo, la psicanalisi, la Legge e il Potere come strumenti di oppressione contro cui ribellarsi. Temi che, col passare degli anni e col proprio riaffiorare ciclico come sfoghi irreprimibili di un herpes dell’anima, sono diventati vere e proprie ossessioni che alimentano il suo modo di investigare la società stando dietro la macchina da presa.
Sangue del mio sangue – il nuovo film diretto dal regista e sceneggiatore piacentino che torna a Venezia dopo le due non esaltanti esperienze del recente passato di Buongiorno notte e Bella addormentata – rientra a pieno titolo in questo universo cinematografico degli eterni ritorni narrativi. Con la differenza però che, oltre a essere l’ennesima summa compendiaria di molti di quei temi ricorrenti, è anche un gioco cerebrale le cui componenti primarie sono rappresentate da auto-citazioni del proprio cinema, dal nostos alle proprie radici geografiche e dalla presenza martellante di membri del clan famigliare impegnati in vario modo nel cast.
Il titolo è più di una dichiarazione di poetica: il sangue cui Bellocchio allude è proprio quello. Ovvero il suo modo di fare cinema come lo è sempre stato negli anni ( “contro” tutti e tutto in un’entrata a gamba tesa ai danni di riti e miti della società borghese), ma allo stesso tempo la riproduzione del proprio DNA artistico nelle persone dei figli Piergiorgio ed Elena oltre che nella rievocazione di un evento doloroso quale il suicidio del fratello gemello, già fatto riaffiorare sullo schermo nel 1982 ne Gli occhi, la bocca. Per arrivare fino alla presenza di un altro fratello, il sindacalista Alberto Bellocchio, nei panni del Cardinale Federigo Mai da vecchio e di Francesca Calvelli, ex moglie del regista e madre di Elena, che nella seconda parte del film recita nei panni di una giovane bellezza capace di far invaghire addirittura il Vampiro che tiene le fila di tutto in paese.
A cinquant’anni esatti dal folgorante esordio de I pugni in tasca, Bellocchio torna infatti nella «sua» Bobbio, sul luogo artistico del delitto che lo vide imporsi agli occhi del mondo con quel primo grande sussulto contro l’istituto della famiglia borghese di cui era un figlio ribelle. «Bobbio è il centro del mondo», afferma non a caso il personaggio del Conte-Vampiro interpretato da Roberto Herlitzka, antico compagno di merende intellettuali che da anni semina i suoi livori sugli schermi di Bellocchio. A Bobbio tutto inizia e finisce.
Anche la storia di Federico Mai, uomo d’armi che agli inizi del ‘600 torna a Bobbio per assistere al processo intentato dall’Inquisizione ai danni di una giovane e avvenente religiosa, rea di essere posseduta dal demonio e per questo di aver condotto alla perdizione e al suicidio il fratello gemello di Mai, sacerdote tormentato il cui corpo non potrà essere seppellito in terra consacrata a meno che la giovane monacata per forza non decida di confessare il proprio connubio col Maligno.
Ma a Bobbio si torna anche nella seconda parte del film, là dove Piergiorgio Bellocchio (per la prima volta protagonista assoluto di un film del padre e qui impegnato in una doppia parte) interpreta un altro Federico Mai, impostore dei giorni nostri che si presenta al paese in compagnia di un sedicente miliardario russo deciso a convertire le fatiscenti prigioni locali (per altro gli stessi ambienti in cui si svolge la vicenda secentesca) in un resort di lusso, ma costretto a gettare la spugna quando apprende che all’interno della struttura vive un fantomatico Conte-Vampiro così potente da tenere in mano le redini dell’intera comunità montana.
Bobbio caput mundi quindi. Ma soprattutto compendio di una vita. Artistica e non. E se i rimandi autobiografici (il suicidio del prete fratello gemello del protagonista e la fitta presenza di membri della famiglia di sangue) sono l’essenza stessa di tutto il film, anche le autocitazioni non mancano. Con una su tutte degna però di un esercizio di metacinema da brivido: la sala in cui il secentesco Federico Mai cena con le due sorelle che lo ospitano è quella della casa di famiglia dei Bellocchio a Bobbio nella quale si svolgeva buona parte del dramma de I pugni in tasca.
Accolto da otto minuti di lunghi e convinti applausi alla prima veneziana per la stampa, Sangue del mio sangue è però anche una lezione di cinema allo stato puro, nella quale un cineasta arrivato a celebrare a modo suo cinquant’anni di carriera irta di riconoscimenti ma anche di polemiche virulente si permette il lusso di confezionare un film da spedire in laguna con un’operazione assai inedita di taglia e cuci creativo che ad altri sarebbe forse costata bordate di fischi. Se infatti si volesse essere precisi, più che un film Sangue del mio sangue è l’insieme di due mediometraggi nati in epoche diversissime e cuciti insieme con maestria scrittoria pur svolgendosi in periodi storici lontanissimi nel tempo ed essendo caratterizzati dalle tonalità assai poco compatibili del drammone in costume e della satira grottesca.
Il primo episodio, che poi offre al film anche lo spunto del finale per chiudere il cerchio cronologico cercando di evitare il rischio di uno iato troppo marcato nella narrazione, nasce infatti come corto (intitolato molto significativamente La monaca di Bobbio) tre anni fa nell’àmbito dei laboratori di «Fare Cinema» che Bellocchio organizza a Bobbio con giovani aspiranti cineasti. E tale sarebbe rimasto se una visita del tutto casuale alle carceri del paese natale – in rovina da decenni – non gli avesse suggerito lo spunto per la seconda parte.
Che è infatti un prodotto più recente: anche se forse meno riuscita e suggestiva nella sua tonalità di farsa grottesca con vocazione di ritratto dell’Italia slabbrata dei giorni nostri, ciò non ostante riesce a graffiare non solo per la potenza evocativa del personaggio del Conte-Vampiro che rappresenta il passato retrivo del dominio democristiano e la sua attuale incapacità di adeguarsi ai tempi, ma anche per la forza travolgente di magnifici nomi parlanti di lontana discendenza plautina (il Conte-Vampiro «Basta», il Dottor «Qualunque» e gli stessi Federico «Mai» in giro per i secoli).
E non ostante questa sua genesi da collage filmico, Sangue del mio sangue non dà quasi mai l’impressione di essere il prodotto di un montaggio posticcio. Con un’operazione di ardita sartoria drammaturgica, Bellocchio cuce insieme i due tronconi narrativi apparentemente incompatibili inventandosi un fil rouge interno capace di farli convivere al meglio nella coniugazione armoniosa di alcune delle ossessioni tematiche a lui tanto care.
Il fanatismo religioso che domina oppressivo tutta la magnifica parte secentesca (resa ancora più suggestiva dalla fotografia di Daniele Ciprì) e che produce i mostri persecutori dell’Inquisizione getta la sua lunga ombra oltre l’ostacolo dei secoli: l’oscurantismo ottuso che il Conte-Vampiro fa assurgere a cardine del suo conservatorismo fanatico è figlio di quell’intolleranza di quattro secoli prima.
Ma è anche il padre putativo e forse involontario del qualunquismo digitale e del trionfo della falsità dei giorni nostri contro cui il Conte e la sua fantomatica «Confraternita» in odore massonico si battono come smunte figurine donchisciottesche travolte dal volgere frenetico del tempo ma ciò non ostante attaccate alla protezione testarda di uno status quo che ha permesso loro di stare a galla per decenni vampirizzando un paese intero nelle parti più sane del suo midollo postbellico.
Trama
Nella Bobbio dei primi del ‘600, Federico è un giovane uomo d’armi che, deciso a fare luce sul suicidio del fratello gemello prete uccisosi per amore di una bellissima monaca costretta dalla famiglia a prendere i voti, ne rimane fatalmente affascinato senza riuscire a portare a compimento le meditata vendetta. La ragazza, sottoposta a un processo per stregoneria da una commissione dell’Inquisizione e ritenuta colpevole, viene murata viva nelle antiche prigioni del paese dove, secoli dopo, arriverà un altro uomo con lo stesso nome. Questi, spacciatosi da ispettore ministeriale pur non essendolo affatto, scoprirà che nell’edificio abita un misterioso Conte che vive solo di notte e che è a capo di una bizzarra Confraternita capace di tenere in pugno l’intera comunità.
di Redazione