Saimir

“Mite giustiziere dell’Appennino”: così, a suo tempo, Moravia definì il protagonista di I pugni in tasca(1965) di Bellocchio.
L’appellativo usato da Moravia, fatte le dovute distinzioni geografiche, si adatta, oggi, perfettamente alla personalità e all’agire di Saimir, giovane albanese al centro del film d’esordio di Francesco Munzi.
Mishel Manoku, per la prima volta sullo schermo nel ruolo di Saimir, somiglia non poco, anche fisicamente parlando, a Lou Castel giovane ed è difficile staccarsi, durante la visione del film, da questo parallelo suggestivo e totalizzante.
Altro nume tutelare di questa opera prima, sorprendente per maturità e rigore, sembra essere Pasolini: gli spazi marini nei quali Saimir è ripreso sono delle vere e proprie citazioni di opere del poeta-regista. Se in tutta la prima parte della pellicola, Saimir è taciturno e si limita ad osservare con acume e sensibilità gli altri attorno a lui, successivamente, lo vediamo estrarre, simbolicamente, i pugni in più di un’occasione: quando si sente rifiutato dalla ragazza che egli considera la sua fidanzata e, poi, quando decide di liberare la quindicenne clandestina destinata alla prostituzione.
Il vero scatto di nervi che, direbbe Sartre, trasforma la caduta in un tuffo, si ha, però, soltanto nel finale, in cui Saimir, novello Impastato (I cento passi), trova il coraggio di denunciare il padre e i suoi compari, per affrancarsi, dolorosamente e definitivamente, da un mondo in cui non si riconosce e che, apparentemente, non lascia via di scampo.
L’opera prima di Munzi, carica, come il suo protagonista, di rancore e di speranza, mostra che è possibile scegliere, sempre e comunque, una vita diversa, nonostante condizioni di partenza sfavorevoli e castranti.
Un messaggio niente affatto consolatorio, bensì un invito forte, e in contro-tendenza, ad assumersi responsabilità e a farsi, artefici, per quanto possibile, del proprio destino.
di Mariella Cruciani