La lotta di classe nell’epoca dei festival cinematografici

Il Festival di Cannes ospita molti titoli che ragionano o mettono in scena la lotta di classe, da Bong Joon-ho a Lech Kowalski, da Ladj Ly a Mati Diop. Gli applausi sgorgano spontanei, ma nella piramide sociale architettata dal Festival lo schema si ripropone senza che si alzi un sospiro di protesta.

La lotta di classe nell'epoca dei festival

In Parasite di Bong Joon-ho, uno dei migliori titoli del concorso di questa settantaduesima edizione del Festival (un’edizione di alto livello cinematografico, è giusto sottolinearlo), viene mostrata la differenza tra classi abbienti e sottoproletariato mettendo in scena, senza troppe riflessioni teoriche, l’alto e il basso della società. La villa dei padroni è nella parte alta di Seul, la famiglia dei sottoproletari – un po’ truffaldini e pronti a tutti gli escamotage, alla maniera della commedia sociale del tempo che fu – abita non solo nella parte bassa, ma addirittura in uno scantinato di una topaia, così fetida da venire allagata dai liquami delle fogne quando la pioggia cade in maniera incessante. Bong orchestra la sua danza dapprima leggiadra e poi dolorosamente macabra come una lunga e cadenzata armonia che canti la lotta di classe, la sua urgenza quasi naturale, la sua impossibilità alla riuscita per via della scarsa voglia di unire le forze del proletariato. Prima di capire come colpire i padroni gli ultimi della classe si uccidono tra loro, per mettere le mani su un bottino che si chiama “sopravvivenza”. A Cannes la lotta di classe non si ha paura di mostrarla sugli schermi, anzi. Prorompe nella Quinzaine des réalisateurs che fa salire sul palco gli operai della GM & S raccontati da On va tout péter di Lech Kowalski. Tracima poi nella selezione ufficiale, tra la banlieu messa a ferro e fuoco da un gruppo di ragazzini in Les Misérables di Ladj Ly (e Victor Hugo non è scomodato a sproposito), i lavoratori portati allo sfinimento che sono alla base di Sorry We Missed You di Ken Loach, perfino i migranti morti in mare che tornano come djinn nell’immaturo ma affascinante Atlantique di Mati Diop.

Nulla di nuovo, a ben vedere, se si pensa come l’anno scorso venne accolto trionfalmente In guerra di Stéphane Brizé, altro racconto di operai in lotta – il film di Kowalski ne è in qualche misura la versione adulta, ben più stratificata e approfondita – e ci si ricorda che appena tre anni fa la Palma d’Oro venne assegnata proprio a Ken Loach, per Io, Daniel Blake. Tutti titoli che la critica a sua volta usa trattare con i guanti, spolverando l’immarcescibile dicitura di “film importante” e giubilando di fronte alla possibilità di concentrarsi sul tema tralasciando il trattamento.

Quello che appare sempre più evidente, però, è come il festival metta in atto quella stessa struttura piramidale e gerarchica che i suoi titoli più forti attaccano frontalmente. Un bel girotondo, corto circuito impazzito – ma neanche troppo. La netta divisione tra gli accrediti è sempre stato uno dei punti fermi di Cannes, con i bianchi che guardano dall’alto in basso tutte le altre categorie della stampa, divise in colori come i protagonisti de Le iene di Quentin Tarantino: a seguire i Rosa “Pastille”, i Rosa, i Blu e i Gialli. Con il passare degli anni questa suddivisione non è venuta meno, anzi si è perfino sclerotizzata. Quest’anno poi, con lo spostamento delle proiezioni stampa e soprattutto le poche repliche previste per il titolo più atteso – il magnifico Once Upon a Time… In Hollywood di Tarantino – l’emergenza è esplosa in tutto il suo grottesco. Gli accreditati gialli costretti a file infinite e infinitamente inutili, rimbalzati di proiezione in proiezione, mentre davanti a loro accrediti Bianchi e Pastille entravano in sala fino all’ultimo minuto. Una scena che mescola demenzialità a una profonda ingiustizia, e a una totale assenza di rispetto del lavoro altrui. A risaltare ancor di più alla vista, però, è una volta ancora la lotta tra poveri. In questa rilettura in salsa festivaliera del classico divide et impera le classi subalterne, vale a dire tutti gli accrediti, in ordine di grado, digrignano i denti per contendersi l’osso – che sarebbe un posto in sala – invece di provare a fare un’azione collettiva di protesta, a smuovere qualcosa nell’immenso ingranaggio del festival. L’un contro l’altro armati, tirando un sospiro di sollievo appena oltrepassati i controlli agli ingressi delle sale senza neanche voltare lo sguardo verso la grande moltitudine di colleghi che restano fuori, dopo aver condiviso file.

Torna di nuovo prepotente l’immagine di Parasite, con i poveri a uccidere i poveri per potersi garantire l’unica cosa che pare a loro permessa: servire il padrone. Titoli di coda. Applausi. Corsa in sala stampa. Apertura di Facebook. Grida di giubilo. Palma d’Oro assegnata a gran voce. Sipario.


di Raffaele Meale
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