Il vero irreale. Su Le jeune Ahmed
I fratelli Dardenne portano a Cannes in concorso Le jeune Ahmed, e affrontano il tema della radicalizzazione islamica. Ma la loro pretesa di realtà si scontra stavolta con una messa in scena inerte, e priva di spunti di interesse.

È più vera e credibile la testa mozzata che ancora muove gli occhi su cui quasi si apre First Love di Takashi Miike dell’ora e mezza o poco meno in cui Luc e Jean-Pierre Dardenne cercano di dipanare la matassa di Le jeune Ahmed, il loro undicesimo lungometraggio in trentadue anni di carriera. Presentato come d’abitudine in concorso al Festival di Cannes – è da Rosetta, nel 1999, che questo accade: La Promesse era invece in selezione alla Quinzaine des réalisateurs, mentre i pressoché sconosciuti Falsch e Je pense à vous rimangono gli unici due film diretti dai fratelli a non essere stati invitati sulla Croisette – il film si concentra sull’Ahmed del titolo, un ragazzino che seguendo alla lettera i dettami di un imam radicalizza la propria visione dell’islam finendo per cercare di uccidere con un coltello un’insegnante di arabo che al contrario si dimostra di visione moderna e dialettica. Ahmed viene dunque mandato in riformatorio, con la speranza di poterlo “recuperare” come buon cittadino.
Basterebbe con ogni probabilità questa breve sinossi per cogliere il profondo problema che risiede alle spalle de Le jeune Ahmed, e che di fatto getta un’ombra oscura per una volta non sullo stile dei due fratelli belgi ma semmai sulla loro visione del mondo. Dominato da un paternalismo fastidioso e così schematico nella suddivisione manichea tra musulmani buoni e cattivi (buona la professoressa, perché aperta e dialogante; cattivo l’imam, per di più tratteggiato con scarsa raffinatezza anche nell’uso delle parole, dei gesti, delle intenzioni), il film si muove per una volta completamente nel campo del lavoro a tesi, aprioristico. Un film che non si mette mai in discussione e che non tenta neanche di sfuggita di comprendere i propri personaggi può permettersi di elargire una morale agli spettatori? Ci si muove in un contesto che è apertamente in antitesi, per esempio, su ciò che si scriveva pochi giorni fa di Ken Loach e del suo ottimo Sorry We Missed You. Mentre lì l’ambiente veniva descritto nei minimi dettagli, in tutte le sue contraddizioni, proprio per far scaturire con forza maggiore il dolore intimo e collettivo del proletariato contemporaneo, ne Le jeune Ahmed tutto il contesto viene completamente escluso dalla visione della camera, come d’abitudine incollata ai suoi personaggi ma stavolta senza alcuna intenzione di entrarvi in contatto.
Ahmed si radicalizza, e non si sa perché. I suoi parenti, a parte il fratello maggiore, non sono invece per niente radicalizzati, ma anche di loro si sa pochissimo. Non si comprende neanche in quale città si stia svolgendo la storia, né si sa nulla dei contadini dai quali il ragazzo è spedito durante la detenzione come attività sociale di “recupero”. Tutto viene dato per scontato, perché l’unico elemento che conta è l’evidenza: Ahmed è arabo, è appassionato lettore del Corano ed è radicalizzato. Questa semplicistica concatenazione per i Dardenne giustifica in pieno il suo reiterato tentativo di uccidere la sua professoressa, che l’imam ha definito un’apostata.
Cos’è la realtà, viene da chiedersi, e che valore deve acquisire una volta che trova corpo sullo schermo? Mostrare il reale possibile equivale a mettere in scena la realtà? Ovviamente no. Il credibile non è vero solo perché l’immagine rivendica la propria evidenza di oggettività. Ecco dunque che Le jeune Ahmed si sviluppa nella sua breve durata – forse troppo breve, incapace dunque di donare il giusto tempo a una storia che avrebbe meritato una cura davvero maggiore – come un vero irreale. Seguire le evoluzioni di Ahmed pone lo spettatore nella stessa posizione che può avere di fronte alle avventure di un supereroe, al punto che quando il giovane, ancora una volta animato dall’unico desiderio di poter uccidere la donna blasfema che insulta il Profeta, si arrampica sulla finestra della sua magione nessuno prova un senso di distacco. Perché Ahmed è un supereroe negativo, uno Spider-Man cattivo, nulla di più.
A incollare i Dardenne alla realtà resta solo lo stile, scarno e pedinatore come al solito. Ma lo scollamento si fa evidente, e il castello di carte edificato viene giù in una frazione di secondo. Viene addirittura il dubbio che nella messa in scena dell’islam si celi un razzismo atavico, quello dei figli dell’Europa cristiana verso i Mori, i turchi, gli arabi. E quando la possibile redenzione del giovane passa solo per l’attrazione verso la figlia dei fattori – che si trasforma in repulsione visto che il loro bacio è impuro – o di fronte al rischio di perdere la vita, questi dubbi assumono una maggiore concretezza. Si deve maneggiare il vero con molta accuratezza, e un’attenzione fuori dal comune per non scadere in un sociologismo vuoto e prevedibile, e in una lettura sociale svuotata del senso del vivere e dell’umanità. Oppure, come fa l’ottimo (e incredibilmente sottostimato) Werner Herzog di Family Romance, LLC, qui a Cannes tra le proiezioni speciali, si deve puntare tutto sulla falsità del vero, sulla finzione eterna cui sono condannati gli esseri umani contemporanei. Ma per far questo si deve avere la forza e la voglia di mettersi in dubbio, di svuotare anche se stessi del proprio dogma interiore. Uno sforzo che i Dardenne rifuggono.
di Raffaele Meale