Il cinema di genere a Cannes 2019
La prima settimana del Festival di Cannes ha testimoniato una presenza massiccia di opere che si divertono a maneggiare il “genere”, utilizzandolo nei modi più disparati. Da Jim Jarmusch a Robert Eggers, da Mati Diop a Jessica Hausner, fino a Bertrand Bonello e Takashi Miike. E con un nume tutelare, il John Carpenter de La cosa, a guardare dall’alto.

L’idea di consegnare la Carrosse d’Or, il tradizionale riconoscimento alla carriera assegnato dalla Quinzaine des réalisateurs, a John Carpenter aveva trovato d’accordo la platea cinefila fin dall’annuncio ufficiale, qualche mese fa. Eppure in pochi, pochissimi, avrebbero immaginato che quel premio, insieme alla proiezione de La cosa, si sarebbe legato in maniera così forte e vitale all’intera programmazione del festival, dalla sezione collaterale fino alla selezione ufficiale. Mai come quest’anno, in effetti, il genere sembra essere stato preso a modello dai registi presenti sulla Croisette. Modello produttivo, in alcuni casi, o linguistico in altri, o perfino escamotage narrativo teso ad avvincere l’occhio sempre più pronto alla disattenzione dell’accreditato medio. La cosa, dunque, come punto di (ri)partenza. Il film meno compreso dell’intera filmografia di Carpenter, quello contro cui per anni la critica ha lanciato strali, neanche si trattasse di un’opera minore, secondaria, dimenticabile. Non vi è invece nulla di dimenticabile, nel capolavoro di Carpenter, che prende ispirazione da Lovecraft per trasformare un incubo claustrofobico in metafora di un mondo diviso a metà, in cui si finisce per diffidare anche delle persone con cui si vive ogni giorno, mentre il mostruoso si fa strada anche grazie alla scienza. Un’opera potentissima e germinatrice, cui hanno guardato e continuano a guardare decine, centinaia di cineasti sparsi in giro per il mondo. Cosa può essere l’orrore se non la rappresentazione plastica ed evidente dell’abnorme mostro che vive nell’uomo e attorno a lui?
È interessante notare come l’horror, e in maniera più ampia l’exploitation movie tradizionalmente inteso, siano approdati con grande frequenza sulla Croisette, anche in opere che mai avrebbero lasciato presagire qualcosa di simile. Si pensi per esempio a Little Joe di Jessica Hausner, che innerva la sua classica attitudine autoriale con schegge di fantascienza – per quanto depauperate del loro potenziale “spettacolare” – o all’interessante esordio di Mati Diop Atlantique, che fa virare la sua storia di migranti annegati nel tentativo di raggiungere l’Europa verso contorni fantastici, riesumando il mito arabo dei djinn, in una sorta di “ritorno dalle tenebre” con intenti strettamente politici (i morti, scappati dal Senegal perché la loro manodopera non veniva retribuita da mesi, tornano a reclamare il giusto compenso al padrone del cantiere in cui lavoravano).
Le forme del fantastico sembrano essere state oramai completamente metabolizzate da una generazione di cineasti cresciuta in compagnia di autori indispensabili come il già citato Carpenter, David Cronenberg, Dario Argento, Wes Craven, George Romero, Jean Rollin. Un superamento tardivo ma da salutare con estremo interesse dei paletti che da sempre impediscono al cinema d’intrattenimento e a quello di ricerca personale, strettamente autoriale, di creare una dialettica concreta. Se è vero che Jim Jarmusch, che con The Dead don’t Die ha aperto ufficialmente il Festival di Cannes a suon di morti viventi affamati di carne umana, sembra perdersi a confronto della materia orrorifica, non sapendo gestire con la dovuta accortezza le derive del demenziale previste in sceneggiatura – e allo stesso tempo vanificando l’omaggio all’horror del tempo che fu, dettaglio nel quale da sempre per esempio eccelle invece Joe Dante –, è altrettanto vero che Bertrand Bonello con Zombi Child e Robert Eggers con The Lighthouse (entrambi presentati all’interno della Quinzaine des réalisateurs, cui la nuova gestione di Paolo Moretti sembra aver donato nuova linfa vitale) guardano con insistenza al cinema del passato, cercando nel già filmato le coordinate per esprimere la propria tensione visionaria. Bonello, sulle orme del Jacques Tourneur di Ho camminato con uno zombi, fa vivere la sua creatura in un’atmosfera galleggiante, sospesa, onirica e in un eterno falso movimento – le splendide riprese del vagare disperso dello zombi haitiano per l’isola del Caribe. Se non tutto torna è solo perché dopo aver promesso molto allo spettatore, sia sotto il profilo visionario che per quel che concerne la filosofia di ciò che viene messo in scena, Bonello sembra perdersi nei propri stessi rivoli, vanificando parte consistente del percorso. Un difetto non poi così dissimile da quello di Eggers, che giunto alla sua opera seconda – l’esordio fu The Witch, divenuto in breve tempo oggetto di culto – dimostra di avere un controllo completo della regia ma allo stesso tempo di non aver probabilmente poi così tanto da dire. Il suo film, racconto del delirio onirico e della paranoia di due guardiani del faro costretti a condividere pochi metri quadrati nel bel mezzo dell’Atlantico, al largo delle coste del New England, annichilisce lo sguardo dello spettatore, ma allo stesso tempo appare fin troppo costruito per quel che vuole effettivamente narrare. Elegantissimo, ma con il forte rischio di girare a vuoto di quando in quando, nonostante tutto.
In realtà un altro maestro, a parte Carpenter, è passato per la Croisette. Si fa riferimento a Takashi Miike, il genio giapponese che con First Love (a sua volta presentato alla Quinzaine) ha portato a termine il suo ottantanovesimo lungometraggio diretto in ventotto anni di carriera. Pur non appartenendo al campo dell’horror First Love, con le sue mutilazioni, la violenza esagerata e fieramente mostrata, e il rutilante incedere della narrazione, merita di concludere questo breve excursus. Un viaggio misterico, spassoso e sanguinolento nella notte di Tokyo, sbeffeggiante urlaccio in faccia alla logica borghese, stralunato e dolcissimo inno alla resistenza umana, contro tutto e tutti. Un’opera stratificata, ricchissima e debordante, che meriterebbe di essere apprezzata dal pubblico italiano. Un’utopia, si sa. Perché il vero orrore spesso non prende corpo sullo schermo, ma nella politica culturale di un Paese come l’Italia dominato dalla mediocrità.
di Raffaele Meale