Rossosperanza
La recensione di Rossosperanza, di Annarita Zambrano, a cura di Mariella Cruciani.
Rossosperanza, presentato in Concorso al Festival di Locarno, è il secondo lungometraggio di finzione di Annarita Zambrano, dopo il debutto del 2017 con Dopo la guerra, film sulla lotta armata nell’Italia degli anni Settanta. Lo sguardo della regista si sposta, ora, dagli anni di piombo agli anni Novanta, i primi dopo la caduta del muro di Berlino e la fine delle ideologie. In proposito, la stessa Zambrano ha osservato: “I ragazzi del 1990 sono ormai fuori da ogni prospettiva di riscatto politico, non hanno più davanti a sé alcuna utopia. Non vogliono più salvare il mondo, devono combattere solo per salvare se stessi dal potere micidiale che li precede e li schiaccia”.
È questo che provano a fare i protagonisti del film: Zena, Marzia, Alfonso e Adriano, figli “difficili” rinchiusi dai loro genitori “perbene” in un costoso istituto che dovrebbe ricondurli alla “normalità”. Il tipo di rieducazione e l’atmosfera che si respira a Villa Bianca fanno venire in mente, rispettivamente, Salò di Pasolini e Suspiria di Luca Guadagnino. Siamo, cioè, di fronte a un horror esistenziale, a una favola nera dove tutto è volutamente sopra le righe, eccessivo, grottesco. Simbolo e sintesi dell’opera è l’immagine della tigre che apre e chiude il film: un animale uscito dalla sua prigione e che, grazie al massacro compiuto, riconquista la libertà.
Anche ognuno dei ragazzi ha fatto qualcosa di terribile ma la loro violenza – come quella della tigre – è per Zambrano l’unica difesa possibile contro i padri e uno stile di vita fasullo e mostruoso. In verità, però, i quattro ribelli del film non riescono ad andare oltre la disobbedienza e il loro rifiuto del potere non porta a nulla. Il limite ideologico di Rossosperanza, a dispetto del titolo, è proprio nella disperazione dei personaggi i quali, al di là della furia vendicativa, non sono capaci di immaginare un cambiamento reale. Ballare sulle macerie fumanti può essere liberatorio, ma non basta…
di Mariella Cruciani