Road House
La recensione di Road House, di Doug Liman, a cura di Emanuele Di Nicola.

Road House è il remake dell’omonimo film di Rowdy Herrington del 1989, in italiano Il duro del Road House. Ma, per paradosso, bisogna liberare il campo dalla smania del confronto per godere davvero della versione di Doug Liman nel 2024, che arriva dall’inventore “dimenticato” di The Bourne Identity, prima che la saga di Jason Bourne passasse nelle mani di Paul Greengrass. È quindi uno, Liman, che l’action lo sa fare davvero.
Partendo da questa premessa, il canovaccio alla base dell’originale viene confermato: un uomo chiamato Elwood Dalton, esperto lottatore, di cui non conosciamo il passato, viene assunto in una Road House di Florida Keys, poco fuori Miami, perché serve un “buttafuori” speciale. Ogni sera il locale diventa preda della malavita locale e finisce devastato, tra risse che provocano danni, perdite economiche e strapotere invisibile del giovane boss locale, che se la gode a bordo del suo yatch. Impossibile tirare avanti l’attività per la nera Frankie, che prega l’uomo di riportare ordine nella casa. Da parte sua Dalton è un grande combattente, come si evince dall’inizio, ma si dimostra restio ad alzare le mani, a colpire davvero, a causa di un buco nero nel passato che ci verrà gradualmente svelato. Il protagonista trentacinque anni fa aveva volto e corpo di Patrick Swayze, con tutto ciò che ne conseguiva, compresa la fisicità dirompente del texano; qui invece “diventa” Jake Gyllenhaal, muscoloso e scolpito, peraltro non nuovo a tali prove, basti pensare al pugile sostenuto in Southpaw. Va detto subito: sono due attori molto diversi, sia nelle movenze che nella capacità coreografica che vede Swayze insuperato, ma alla fine dei conti l’altro non fa rimpiangere l’uno.
Il racconto ha una struttura western: Elwood giunge nel luogo, come un cavaliere della valle solitaria, come Alan Ladd che scendeva dalle montagne del Wyoming per difendere la famiglia dei coloni nel classico di George Stevens; è insomma l’estraneo chiamato a mettere ordine nel caos, a ricomporre il microcosmo. Inutile dire che la violenza non potrà essere evitata, e meno male: Road House è soprattutto un film d’azione indiavolato, un action che non molla mai la presa, anzi tira l’elastico per quasi due ore senza pause, se non in pochi momenti rareffatti che “romanticizzano” il narrato avvicinando Dalton alla bella Ellie incarnata in Daniela Melchior. Per il resto, il cinema d’azione viene riportato alla sua dimensione, anzi alla sua velocità naturale, ossia duecento all’ora. Archiviato il rovello etico, gli scontri pirotecnici di Elwood Dalton vengono inscenati da Doug Liman attraverso una regia potente, a tratti magistrale, che si appoggia alla CGI ma dispiega anche notevoli piani sequenza. E soprattutto tiene insieme ogni cosa, portando un risultato nitido, permettendo di distinguere nettamente quanto avviene nella singola inquadratura come succede di rado nell’action commerciale americano.
L’altro polo dello scontro è un’autentica sorpresa: il lottatore irlandese Conor McGregor nelle vesti (poche) di Knox, il villain che viene spedito dal boss ad ammazzare Dalton, un fascio di muscoli e stereoidi: è il suo Ivan Drago, colui che gli dà seriamente filo a torcere sino al classico scontro finale. In virtù del meccanismo si passa sopra all’aspetto più “guascone” della sceneggiatura, che tenta di acchiappare con linee di dialogo assurde e quasi sfacciate (Elwood chiede dov’è l’ospedale prima di massacrare i nemici). Insomma: puro cinema di genere, divertimento “sano”. La critica più autorialista lo stronca senza pietà, ma forse anche loro sotto i baffi ammettono che si sono divertiti.
di Emanuele Di Nicola