Ritratto di famiglia
La recensione di Ritratto di famiglia, di Roschdy Zem, a cura di Giorgio Manduca.
Pur presentandosi come una classica narrazione corale sulle relazioni familiari, la pellicola di Roschdy Zem rivela, fin dalle prime inquadrature, un intreccio di storie e riflessioni intorno al tema della frammentazione comunicativa in cui siamo immersi.
Il film si apre con un dettaglio su uno schermo di uno smartphone: il protagonista, Moussa (Sami Bouajila) sta tentando invano di chiamare la sua ormai ex moglie. Subito dopo vediamo l’uomo che raduna abiti e oggetti della donna con l’intento di disfarsene. Un incipit così costruito sembrerebbe portarci in una storia di separazione e di disperazione, ma nel corso dello sviluppo narrativo si affaccia in modo sempre più insistente un altro aspetto, quello della distanza che le modalità comunicative impongono nelle relazioni umane.
I molti personaggi del film, tutti membri della famiglia allargata di Moussa, uniti e legati, appaiono in realtà come distratti dalla presenza ingombrante e “violenta” (così la definisce lo stesso protagonista) degli strumenti e dei canali attraverso cui la comunicazione e le relazioni si attuano nella modernità. Il fratello di Moussa, Ryad (interpretato da Zem stesso), è un anchorman che vive costantemente immerso nella sua (ir)realtà, mentre l’unico contatto che i suoi familiari hanno con lui è guardare in diretta tv i suoi programmi. Amir, il figlio di Moussa, è un adolescente convinto terrapiattista che cita continuamente come verità assoluta i contenuti fake appresi da YouTube, mentre la nipote è assorbita dalla sua attività di TikToker.
Ognuno di loro ha dunque un filtro tecnologico e comunicativo che gli impedisce di avere un contatto diretto con la realtà, ma, nonostante ciò, appaiono tutti normali soggetti, dei ‘tipi’ in tutto e per tutto aderenti a una quotidianità che ogni spettatore probabilmente può aver modo di sperimentare nella vita reale.
Ma questo sistema percettivo va in crisi di fronte all’incidente che colpisce Moussa. Con un espediente narrativo che ricorda Enrico IV di Pirandello, il film ci mostra il protagonista che, in seguito a un trauma cranico, acquisisce un nuovo modo di vedere il mondo e di relazionarsi con gli altri. Diventa più diretto nei giudizi, perde i filtri delle convenzioni sociali e familiari e costringe quindi tutti a prendere atto delle proprie contraddizioni e delle false convinzioni, facendo così emergere un conflitto che solo nella scena finale trova una inusuale sospensione.
di Giorgio Manduca