Republic of Silence
Il film siriano "Republic of Silence" di Diana El Jeiroudi, presentato al Biografilm Festival e recensito da Emanuele Di Nicola.
Il Biografilm Festival 2022 è stata l’occasione per rivedere in Italia una delle opere più potenti degli ultimi anni, dopo il passaggio all’ultimo Festival di Venezia fuori concorso: Republic of Silence di Diana El Jeiroudi, prodotto dal marito e attore Orwa Nyrabia, anche direttore dell’IDFA, International Documentary Film Festival di Amsterdam. Nel film di 183 minuti i cineasti siriani registrano la loro vita: un’esistenza da esuli perché resistenti, in quanto non si sono mai piegati alla feroce dittatura di Assad e anzi, attraverso il festival indipendente Dox Box e il sostegno ad altri registi ribelli in ogni parte del mondo, hanno creato uno spazio di cinema libero. Uno spazio che oggi è apolide e viaggia in tutte le sale che lo ospitano, tra cui quella di Bologna. Il racconto si apre a schermo nero: «Il film inizia senza immagini perché quello che ho visto non si può tradurre in immagine». La piccola Diana infatti da bambina è sradicata da casa, cambia Paese con la sua famiglia in fuga dai conflitti che infiammano il Medio Oriente. Quando “diventa” siriana entra nel meccanismo del regime: una repubblica del silenzio, appunto, un luogo in cui non si può parlare, non si deve dire, bisogna solo obbedire fin dall’educazione della gioventù che inneggia al partito nazionale.
Allora cosa fare? Diana e Orwa si oppongono con l’unica arma a loro disposizione: la macchina da presa. Iniziano a filmare. Girano, girano e girano. Filmano tutto e con tutto, telecamere, obiettivi, cellulari. Si va dalla loro abitazione siriana all’attivismo in favore dei cineasti indipendenti, passando per i pericoli corsi ogni giorno, perfino la scomparsa e l’arresto di Orwa, quindi l’esilio in Germania per restare vivi. Soprattutto i momenti quotidiani, dall’inquadratura di un piccione agli oggetti minimi, tra tutti la finestra come quadro da cui vedere l’intorno, dalla quale si può festeggiare un capodanno o vedere bombardamenti, in una rima interna complessa e stratificata. E molto altro ancora, difficilmente sintetizzabile: ci sono scenari che lasciano emergere la sostanza della dittatura, come la ricerca sul patrimonio genetico impedita dallo Stato confessionale (ed ecco la nascita di figli con ritardo mentale); altri momenti che non c’entrano direttamente col regime ma in qualche modo lo riguardano, come i teneri festeggiamenti per un compleanno o Diana e Orwa che adottano un cane. Intorno a loro la grande famiglia dei cari e degli amici, che si lasciano e ritrovano nel corso del tempo, entrando o scappando dalle maglie del governo, e loro stessi che diventano personaggi: il più struggente è proprio Orwa, segnato da una profonda lacerazione interiore, dalla ferita dell’esule, che però affronta la situazione con serenità, con la calma olimpica di chi sente di essere nel giusto.La loro è una macchina da presa onnivora: proprio perché silenziati, non possono fare altro che continuare a filmare.
Su questo telaio la regista disegna squarci apertamente politici. Vediamo l’ipocrita giuramento del presidente Assad nell’incipit, condito da diritti e democrazia, e istanti più personali, affidati alla memoria di Diana, che si materializza in lettere bianche su sfondo nero, costruendo il ricordo di una vita da sradicata. Una storia, ha detto Diana El Jeiroudi a Bologna, che «è personale ma non intima»: tutti possono riconoscersi o respingerla, a seconda delle proprie inclinazioni e convinzioni. Perché Republic of Silence potrebbe essere ciò che in letteratura si chiama non-fiction: la storia di se stessi, girata da cineasti censurati che, non potendo raccontare un’altra storia, raccontano la propria. Solo che qui non c’è costruzione letteraria, c’è solo il gesto di filmare una vita, senza pretesa universale ma mettendola davanti agli occhi, così com’è. Parlando per sé e non per altri.
Il cinema di resistenza antiregime è ormai vasto e potente, d’altronde gli stessi El Jeiroudi e Nyrabia avevano prodotto lo splendido Autoritratto siriano – Eau argentée nel 2014. Ma questo film segna un passo avanti: raramente si è visto tradotto in immagine ciò che esso contiene, le devastazioni fisiche e mentali, le bombe e i morti, che restano sempre fuori campo sino a quando, in un unico strappo illuminante, fanno irruzione nell’inquadratura. Un film estremo, antagonista, fatto di una forma divagante nouvelle vague e della sostanza politica dell’oggi. Che si può amare per molti motivi: come canto partigiano o storia d’amore, gesto cinematografico o colpo contro la dittatura, a cui resiste strenuamente come i ribelli nell’assedio di Homs. Un film che letteralmente vale una vita, anzi alcune vite. In Republic of Silence il regime ha già perso, sconfitto da un occhio che continua a girare.